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Piccole cose altrimenti perdute: Remo Bianco al Museo del Novecento

Instancabile collezionista, produttore, testimone. Autochiamatosi a raccogliere tutto ciò che rimane ai margini,  che potrebbe sfuggire a uno sguardo troppo disattento o, all’estremo opposto, troppo critico, Remo Bianco  si china verso le cose più piccole, innocue e accessorie e le rende protagoniste, tutte assieme, coralmente.

Vissuto tra il 1922 e il 1988, Remo Bianco si forma e crea negli anni centrali del Novecento, quelli che ereditano (fu De Pisis a iniziarlo all’Impressionismo e all’arte francese), che diventano una questione personale (conobbe Pollock durante un viaggio negli USA), che reinterpretano (essenziale la reciprocità creatasi con Fontana). Conobbe diverse fasi di sperimentazione durante tutta la propria carriera – e vita, perché per Bianco la sovrapposizione è fondamentale e fondante. Fasi che spesso coesistono, si influenzano, si alternano e tornano, nessuna prevalendo sull’altra, nessuna impedendo all’altra di esprimersi e concretizzarsi.

Sono ossessionato dal fare dal fare dal fare.
Remo Bianco, Autobiografia

Per questo diventa difficile circoscriverlo a una corrente, attribuirlo a una rete di appartenenza: Remo Bianco è un artista perfettamente inserito nel Novecento e allo stesso tempo solitario, che contemporaneamente solleva l’entusiasmo di Lucio Fontana e di Marina Abramovic, che si occupa solo di ciò che gli dona piacere e lo fa interrogare, solo di ciò che gli richiede la massima attenzione e la maggiore inventiva.

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Remo Bianco, Impronta, 1964

Remo Bianco, Le impronte della memoria

Al Museo del Novecento di Milano, fino al 6 Ottobre 2019, si ritrovano raccolte in un’unica mostra tutte quelle opere che creano una sorta di costellazione dell’arte di Remo Bianco, quella delle Impronte della memoria.

Come noi raccogliamo scontrini, biglietti di eventi, spartiti, tappi di bottiglie che abbiamo bevuto in occasioni speciali, così Bianco salvaguardava dal tempo pezzi di giocattoli, carte in miniatura, riproduzioni di automobili, stagnola dorata, piccoli stampi, attrezzi del mestiere.  Li eternizzava con l’aiuto della gomma, come nella serie Impronte, o nei sacchetti di plastica, creando così le Testimonianze, o ancora li ricopriva di una delicata coltre di neve artificiale, fermando per sempre nel tempo conchiglie, caroselli e biglie, ma anche tutti gli oggetti di una classica natura morta artistica.

La mia natura è una specie di negozio per le vendite al dettaglio, mi concentro […] sul frammento.
Remo Bianco, Autobiografia

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Remo Bianco, Testimonianze, 1964

Questa serie di oggetti affiancati, che coesistono gli uni accanto agli altri solo per il fatto che sono stati amati, usati e conservati da determinate persone in un determinato momento, hanno un parallelo nella serie dei Collage, che in certe occasioni diventano anche parte costitutiva di alcune Pagode. Qui ogni tassello non sembra comunicare con quello successivo, eppure fa chiaramente parte di un disegno più grande ma scomposto, di cui ogni tanto si riesce a cogliere il pattern.

Il compito di Remo Bianco è quello di cogliere questo disegno mentre afferra anche le minime parti che singolarmente vanno a  comporlo, glorificando entrambe le prospettive, riportando nell’eternità del tempo di cui l’arte è garante tutto ciò che la memoria umana non può tenere, perché queste orme del passaggio dell’uomo (di ogni singolo uomo) sulla terra lasciano un segno, non in profondità ma a sbalzo, proiettato verso l’esterno, in un tentativo tridimensionale contro l’appiattimento della memoria, se «l’istante è la vera unità di tempo dell’esistenza» (Lorella Giudici).

Io voglio […] fare un’opera autobiografica, anche se questo è sempre negativo: non bisognerebbe mai parlare, mai rivelarsi, mai dare le proprie misure.
Remo Bianco, Autobiografia

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