IPCC Special Report – Gli impatti della crisi climatica su ghiacci e oceani

Dopo l’Amazzonia in fiamme, l’attenzione è ora per i ghiacciai in fin di vita. E come spesso accade, a scatenare la bomba mediatica italiana non sono tanto le notizie scientifiche in circolo ormai da decenni, bensì l’ennesimo, imminente, disastro. Le decine di articoli e servizi giornalistici sul rischio crollo del Planpincieux, il ghiacciaio sul versante italiano del Monte Bianco, hanno riacceso il dibattito sullo stato di salute delle nostre montagne, puntando nuovamente i riflettori sulla questione del riscaldamento globale e delle relative conseguenze su scala locale. Le temperature alpine, ad esempio, sono aumentate di ben il doppio rispetto alla media globale nell’ultimo secolo. E non c’è pace neanche per gli Appennini, dove il ghiacciaio del Calderone, il più meridionale d’Europa dopo l’estinzione del Corral del Veleta in Sierra Nevada, è stato dichiarato morto e declassato a glacionevaio. Sul web impazzano i video sul requiem funebre che Legambiente gli ha dedicato lo scorso 27 settembre, data simbolo del terzo sciopero globale per il clima. Se pur con ancora evidenti debolezze comunicative, l’agenda mediatica ha fatto della crisi climatica un tema centrale. Quella della politica italiana continua, invece, a rimanere impassibile. Il Decreto Clima, approvato ieri dal Consiglio dei Ministri, rappresenta un infinitesimale passo avanti nel contrasto ai cambiamenti climatici. Purtroppo, però, la bozza finale non prevede nessuna eliminazione di sussidi dannosi per l’ambiente, rinviati alla legge di Bilancio.

A ricordarci quanto sia precario l’equilibrio ecologico del nostro pianeta ci pensano ancora una volta gli scienziati dell’IPCC, il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite, i quali lo scorso settembre hanno pubblicato il terzo e ultimo special report del 2019 dedicato allo stato di salute di oceani (71% della superficie terrestre) e criosfera, la parte di idrosfera con l’acqua allo stato solido. Come se fosse necessario ribadirlo, acqua e ghiacci sono di fondamentale importanza per il nostro (in)diretto sostentamento: ci forniscono acqua, cibo, calore, energia, e interagiscono con gli altri elementi del sistema climatico. Senza sottolineare, inoltre, il loro valore culturale e il loro ruolo essenziale per il settore turistico.E se da un lato i ghiacciai si sciolgono, diminuiscono in spessore e in volume, dall’altro mari e oceani continuano a scaldarsi a un ritmo che è più che raddoppiato dal 1993 a oggi.  Dal 1980, gli oceani hanno assorbito circa il 30% delle emissioni di CO2, causa di acidificazione e sbiancamento di barriere coralline. Inoltre, risultano sempre meno adatti a ospitare la fauna marina. L’innalzamento del livello delle acque, inoltre, aumenta a una velocità senza precedenti anche a causa dello scioglimento dei ghiacci della Groenlandia e dell’Antartide, anche se, per quest’ultima è difficile fornire previsioni accurate.

Nell’ultimo decennio, l’innalzamento del livello degli oceani è stato di 3mm ogni anno, con differenze rilevanti su scala regionale. L’intensità di eventi estremi come cicloni e uragani, inoltre, è notevolmente aumentata. Il piccolo stato insulare delle isole di Fiji, ad esempio, è stato colpito nel 2016 da un ciclone tropicale di categoria 5, il più forte mai registrato nel Pacifico meridionale. Ma non è l’unico esempio di anomalie climatiche degli ultimi anni. Come non dimenticare i due cicloni che a distanza di un solo mese hanno colpito il Mozambico e l’uragano Dorian che ha devastato il nord-ovest delle Bahamas, causando danni anche nel sud-est degli USA e nel Canada orientale. Venti a velocità estreme, precipitazioni più intense e sregolate, e alluvioni lampo sono sempre più evidenti a causa degli squilibri di natura antropica del sistema climatico e di una sconsiderata gestione ecosistemica.
Nel nostro Paese, le cose non vanno di certo meglio e non serve chissà quale scienziato per capirlo. Basta andare su uno dei nostri splendidi ghiacciai alpini per rendersi di conto di ciò che rimane. Il caso della Marmolada, ad esempio, è particolarmente esemplificativo. La montagna più alta delle Dolomiti, al confine tra Veneto e Trentino Alto-Adige, rischia infatti di perdere il suo caratteristico paesaggio glaciale, simbolo della Prima guerra mondiale e oggi paradiso di sciatori e alpinisti. I glaciologi dicono che a seconda del tasso di riscaldamento globale che si avrà nei prossimi decenni il ghiacciaio della Marmolada potrebbe scomparire tra il 2050 e il 2070. Circa un mese fa, il Comitato Glaciologico Italiano insieme al Museo di Geografia di Padova, ha organizzato un’escursione sulla Marmolada al fine di misurare il livello di ablazione del ghiacciaio. I risultati sono impressionanti, venticinque metri in media persi ogni anno negli ultimi tre anni, con una costante riduzione in spessore e volume. Dove il ghiaccio scompare, inoltre, resta la nuda roccia che, come spiega il prof. Mauro Varotto (Università di Padova), si riscalda a una velocità maggiore per via della riduzione dell’effetto albedo, cioè della frazione di energia riflessa. Questo dà vita a quello che lui chiama “effetto fornello”: la roccia si riscalda di più e di conseguenza aumenta la velocità di scioglimento del ghiaccio circostante.

Un circolo vizioso, dunque che non accenna ad arrestarsi, con impatti ambientali, sociali ed economici dalle proporzioni ancora oggi non del tutto note. Un assaggio, però, l’abbiamo già avuto nella località di Zermatt in Svizzera dove quest’estate, a causa delle temperature ben al di sopra della norma, parte del ghiacciaio del Cervino è collassata andando a ingrossare un lago sotterraneo le cui acque si sono poi riversate nel torrente Triftbach travolgendo alcune abitazioni. Un’alluvione lampo senza pioggia, come hanno titolato i quotidiani. Quella di Zermatt è un’inondazione in piena regola, un esempio delle conseguenze dello scioglimento dei ghiacciai a cui dovremo essere sempre più pronti e preparati. Perché ciò che succede in alta montagna si riversa inevitabilmente a valle, impattando negativamente sulle coltivazioni, la sicurezza, la disponibilità di risorse idriche. Per non parlare delle conseguenze sul turismo montano invernale ed estivo. Se i ghiacciai si sciolgono e non nevicherà più, che fine faranno gli impianti sciistici dell’arco alpino e tutto l’indotto che ne deriva? La presa di coscienza di questo enorme problema non sembra ancora del tutto matura. «Quando c’è un inverno con poca neve, come nella stagione 2016-2017, allora questi dati diventano oggetto di ‘riflessioni’, ma se solo il prossimo anno nevicherà tanto, e già a partire da fine novembre, torneremo ai ‘vecchi schemi”» afferma su AltraEconomia Andreas Pichler, direttore della Commissione internazionale per la protezione delle Alpi. La gestione turistica montana sembra procedere in direzione ostinata e contraria. E così vai di teli termici e composti chimici per rallentare lo scioglimento di ghiaccio e neve o di spropositati investimenti per potenziare gli impianti di innevamento artificiale, sebbene questi richiedano un dispendio energetico enorme e costi per mezzo miliardo di euro all’anno solo per le stazioni sciistiche delle Alpi italiane. E così, mentre le temperature alpine si fanno roventi, l’industria del turismo invernale, finanziata da fondi pubblici e privati, continua imperterrita a fare di tutto per stare a galla in un mondo che lentamente annega.

Photocredit: Ansa.it, Ipcc.ch. La foto di copertina è dell’autrice. 

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