L'Uomo Gatto a Caduta Libera

La versione dell’Uomo Gatto

Ho scritto un libro su una cosa che è andata tremendamente fuori moda, la televisione. Superato dagli altri media e in crisi di identità, il telecomando non è più uno strumento centrale nelle nostre vite. Pensate alla politica: vi ricordate quando la tribuna elettorale era appaltata al salotto di Vespa? Sembra passato un secolo: oggi i telegiornali rincorrono le centinaia di tweet e dirette Facebook di Salvini, Di Maio e degli altri politici 2.0. I tormentoni non nascono più da Zelig ma dai meme, e persino gli ultimi esempi di grande share, da Amici a X Factor, sembrano essere entrati in una crisi irreversibile.

Un media residuale, insomma. Ma che riesce ancora a mantenere un senso di comunità, come ai tempi di Lascia o Raddoppia dove un condominio si radunava nell’unico appartamento con il televisore, rigorosamente in bianco e nero. Al posto delle famigerate domande dal pubblico, la maggior parte delle persone che ho incontrato alle presentazioni insiste sulla rappresentanza, ognuno ci tiene a pronunciare il personale “io c’ero”. Cade il muro tra il “gentile pubblico a casa” e i tanti personaggi che hanno animato la televisione di qualche anno fa, l’ultimo grande momento catodico prima della crisi, quando i canali erano solo il 6, Mtv era l’unica rivoluzione possibile e Pippo Baudo era e continuava ad essere un gran professionista.

Uno di loro è Gabriele Sbattella, in arte l’Uomo Gatto. I suoi capelli mechati di biondo, le camicie fosforescenti e la sciarpa del Bayern Monaco fanno parte del nostro immaginario collettivo.

Uomo Gatto vs Max (via Sarabanda Fandom)

L’Uomo Gatto è stato l’antieroe per eccellenza di quella macchina perfetta che era Sarabanda, il game show musicale di Enrico Papi che ha monopolizzato per sette anni l’access prime time di Italia 1. Dei tanti campioni che hanno fatto la storia del programma, da Tiramisù a Coccinella, dalla Professora ad Allegria, l’Uomo Gatto è quello che ha incarnato maggiormente lo spirito del programma. L’imitazione di Ubaldo Pantani, lo scontro con personaggi grotteschi come la Donna Gufo o l’Uomo Toro, la faida contro El Tigre, le ospitate in Rai e su Sky certificano il successo di uno dei campioni più discussi e memorabili della storia della televisione.

Abbiamo intervistato Gabriele per avere la sua versione di un’era, televisivamente parlando, che sembra lontanissima.

Ciao Gabriele, grazie per quest’intervista. Se i gatti hanno sette vite, cominciamo dalla prima: qual era la vita di Gabriele Sbattella prima di diventare l’Uomo Gatto e partecipare a Sarabanda?
Prima di approdare alla trasmissione di Enrico Papi, facevo l’animatore turistico durante la stagione estiva. Durante le stagioni fredde lavoravo come traduttore interprete freelance.

Era il 12/11/2002 quando ti sei presentato a Sarabanda, battendo un campione esperto come Max. Qual è la cosa che ti è rimasta più impressa di quel periodo?
Mi credi se ti dico che ogni volta che mi capita di rivedere quella puntata (che ho scaricato dalla rete e salvata su un hard disk esterno) non ci credo che io sia riuscito a battere Max? Il mio obiettivo era quello di scontrarmi al sette per trenta contro di lui. Poi quello che è successo lo sapete tutti.

L’Uomo Gatto fuori dagli studi Via Teulada

Hai concluso il tuo regno come terzo campione più longevo di Sarabanda, sicuramente il più popolare. Com’è stato il ritorno al mondo reale? Hai avuto nostalgia del palcoscenico?
Sapevo che prima o poi l’avventura “sarabandiana” sarebbe finita. Pensavo di tornare al lavoro di animatore e di traduttore interprete. Invece mi sbagliavo di grosso. Arrivavano richieste di ospitate da parte di discoteche e locali notturni. Proprio in seguito a tutte queste richieste presi la decisione di smettere di lavorare in villaggio. Tale decisione fu presa anche dal fatto che nell’ultima stagione, l’agenzia per la quale lavoravo (non voglio fare nomi anche se comunque ha chiuso i battenti) non mi aveva pagato quanto avevamo pattuito sul contratto firmato e controfirmato. Feci loro causa e la vinsi. Anche se avevo vinto, nessuno mi poteva ripagare delle cattiverie subite in quell’estate del 2002.

Tra te, Papi e la Sara-band, si è creata un’intesa speciale, con tempi comici perfetti e un grande affiatamento. Sia tu che Papi avete un passato come animatori turistici: quanto c’era di preparato? O era tutta improvvisazione del momento?
Non c’era assolutamente niente di preparato. Io non sapevo niente di quei concorrenti con sembianze animali (alcuni di essi di un’arroganza spaventosa) che venivano aizzati contro di me. Me li trovavo belli agguerriti in studio. Per me è stato un immenso piacere averli mandati a casa uno dopo l’altro.

Ma voi campioni di Sarabanda avete un gruppo Whatsapp dove chiacchierate o vi prendete in giro? O comunque ti tieni in contatto con Enrico o con gli altri?
Non abbiamo nessun gruppo del genere.

Dopo la chiusura di Sarabanda, il programma è rimasto per anni in standby, messo in naftalina. A un certo punto, però, il web ha deciso di riportare il mondo di Sarabanda al centro della scena: pagine come “Diventare ignoranti guardando Sarabanda con Enrico Papi”, meme sull’Uomo Gatto, video storici. E tutto questo quasi dieci anni dopo. Come hai vissuto quel cortocircuito social?
Indubbiamente l’arrivo dei social ha aumentato non soltanto la mia popolarità ma anche quella del programma e degli altri campioni che ne hanno fatto la storia. Sapere che si parli di me fa piacere, alcuni commenti però sono stati abbastanza offensivi. Avrei gradito che chi gestiva quella pagina avesse fatto un po’ di moderazione. Da giornalista ti dico che sono per la libertà di espressione che è uno dei diritti inviolabili di ogni essere umano che si rispetti. Vero è che molta gente confonde la libertà di espressione con il fatto che può dire quello che vuole (anche offendendo). Bisognerebbe a mio giudizio mettere delle regole che puniscano severamente quello che è il cyber-bullismo, una delle piaghe dei tempi di oggi.

Snack in sala stampa Sanremo 2019

Snack in sala stampa Sanremo 2019

Dopo questo revival social, non poteva che tornare, nel 2017, un ritorno con tre puntate speciali di Sarabanda. I campioni contro le nuove leve, un format aggiornato con i giochi e lo spirito di sempre. Che tipo di esperienza è stata?
Ti confesso una cosa: quando si è iniziato a parlare di questo ritorno della trasmissione io non ne volevo sapere nella maniera più assoluta di partecipare. Non stavo vivendo un periodo felice sia dal punto di vista psicologico che da quello della salute. Poi però ho cambiato idea. Come? Il mio amico Danilo Daita, che organizza Sanremo D.O.C., un evento collaterale che si tiene a Sanremo proprio durante la settimana del Festival, mi aveva invitato a partecipare a questo suo evento. È stata una bellissima esperienza, non soltanto perché ho avuto la possibilità di vivere sul campo il Festival della Canzone Italiana, ma poi perché girando per la città, ho incontrato tante persone che mi hanno dimostrato il loro affetto. E proprio grazie a loro, ma anche grazie ai fans che ho incontrato durante le mie serate in quel periodo, che ho deciso di andare. Perdonatemi ma non voglio esprimere giudizi su quelle tre puntate. Lascio giudicare a chi le ha viste. Per me sono state dei passaggi televisivi ma anche delle occasioni per incontrare i vecchi amici e conoscerne di nuovi.

Hai attraversato due epoche diversissime di televisione. Quella di Sarabanda, quando la televisione era ancora centrale, e quella di oggi, sovrastata dal digitale e dai social. Tu sei stato un protagonista di entrambe le ere: cos’è cambiato dall’interno?
I social hanno ingigantito la televisione dando al pubblico una possibilità ancora maggiore di esprimere il proprio parere. Diciamo che sono la versione moderna di quello che una volta era l’indice di gradimento.

Sarabanda, riproposto oggi, avrebbe lo stesso successo di allora? O è cambiato qualcosa nel gusto degli spettatori a casa?
Ovviamente il telespettatore di oggi è totalmente diverso da quello che era il telespettatore nei primi anni del 2000 e da quello degli albori della televisione. Il riproporre un programma del passato in chiave moderna è una ciambella che non sempre riesce con il buco.

Che rapporto c’è tra Gabriele Sbattella e l’Uomo Gatto? Ci sono dei momenti in cui il tuo personaggio risulta ingombrante?
Ti confesso che sto cercando di reinventarmi. Ci sto provando come giornalista ma anche come cantante. E devo essere sincero, questo tentativo non sta andando affatto male. Vero è che tanta gente mi ricorda come il campione delle sette note. Un campione bizzarro ma allo stesso tempo preparato che non ha nulla da invidiare agli altri campioni più celebrati.

Cosa hai fatto in questi anni? E quali sono i tuoi progetti futuri? Sempre in televisione o vorresti sperimentare altri media?
Diciamo che ci sto lavorando e che, per scaramanzia, non voglio anticipare niente. Non è nel mio DNA l’elemosinare spazi in televisione, alla radio, sul web e sulla carta stampata. Se mi chiamano vado, viceversa so stare al mio posto e tutto ciò mi riesce bene.

Ultima domanda: come sai, ho scritto un libro che si chiama “Hanno ucciso l’Uomo Gatto”. Per fortuna sei vivo e vegeto, altrimenti non potresti rispondere alle mie domande! Hanno ucciso l’Uomo Gatto è un po’ il mio Video killed the radio star: la televisione è in netta difficoltà, sta perdendo terreno rispetto al web. Ma i gatti hanno sette vite, e per questo ti chiedo: come possiamo salvare la televisione?
La mia ricetta su come salvare la televisione non è poi così difficile. In primo luogo, basta con la cosiddetta “TV del dolore” dove le disgrazie della gente vengono sbandierate a tutte le ore e su tutti i canali. Quelli come me che hanno dai quarantacinque anni in su ricorderanno sicuramente la tragica vicenda di Alfredo Rampi che, nella tarda primavera del 1981, morì rimanendo intrappolato in un pozzo. La RAI a mio giudizio fece un clamoroso errore nel trasmettere in diretta il tentativo di salvataggio, peraltro a reti unificate. A mio giudizio avrebbero dovuto continuare con la programmazione normale e poi mandare un’edizione straordinaria qualunque fosse stato l’epilogo della vicenda.
Altro metodo per salvare la televisione è quello di proporre al pubblico dei varietà sulla falsariga dei grandi varietà del sabato sera, che registravano milioni di ascoltatori ad ogni puntata. Sono comunque del parere che la scelta di RAI Uno di mandare i documentari realizzati da Alberto Angela sia stata una scommessa rischiosa ma che però ha portato i suoi frutti. E che frutti!
Non dimentichiamo mai che il nostro Paese è ricco di bellezze paesaggistiche e di beni culturali. Penso che, se questi documentari venissero trasmessi dai canali stranieri, per il nostro Paese sarebbe una promozione turistica non indifferente e, allo stesso tempo, molto efficace.

 

 

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