L’Unione europea: una storia di ponti e di muri – Intervista a Marco Magnone

L’euro arrivò nel 2002. Avevo nove anni, quasi dieci, e non so perché, ma quelle prime monete datemi da mio zio in un sacchettino rosso mi sembravano bellissime e luccicanti. Mi sembrava strano che tanti Paesi avrebbero avuto la stessa moneta. Mi faceva sentire parte di una comunità. Gli adulti della mia famiglia tardarono ad abituarvisi: facevano sempre il paragone con le lire, io di economia e finanza non ci capivo nulla, ma ripeto, credevo fosse una cosa bella. In quegli anni lessi anche Il viaggio in Europa di Valentina di Angelo Petrosino (Il Battello a Vapore). Volevo essere come lei, girare il mondo, segnavo i posti che avrei voluto vedere e proprio in Norvegia costrinsi la famiglia a visitare il Parco di Vigeland. Per una provinciale già Bologna, la città in cui ho abitato per anni, sembrava grande. Ma l’idea di Europa si è sviluppata maggiormente quando partii per l’Erasmus, il programma di mobilità studentesca dell’Unione europea attivo dal 1987. Al di là dei problemi economici che angustiano i piani alti, far parte di una comunità è sempre stato, fin dagli albori del mondo, un pregio da non sottovalutare, una possibilità da “sfruttare” o forse da far fruttare. Ho letto con curiosità L’Europa in viaggio – Storia di ponti e di muri di Marco Magnone, edito da add editore. Un misto tra saggio e reportage per ragazzi e per adulti, un incontro continuo con persone che sono come noi e che pensano prima al “noi” che all’“io”. Grazie Marco per la preziosa chiacchierata.

Questo libro è un vero e proprio tesoro, ricco di approfondimenti e incontri che hai fatto durante la stesura. Da dove ti è venuta l’idea e quanto tempo ci hai messo a mettere insieme i pezzi?

Spesso accade che i libri nascano da altri libri, e qualcosa del genere è successo anche per L’Europa in viaggio. Dal 2015 al 2018 ho fatto tantissimi incontri nelle scuole di tutta Italia – credo di aver incontrato qualcosa come cinque o seimila ragazzi l’anno – per parlare della saga di Berlin, scritta a quattro mani con Fabio Geda. I sei volumi che la costituiscono – ambientati negli anni Settanta del Novecento in una Berlino Ovest alternativa, in cui un misterioso virus uccide nel giro di poche settimane tutti gli uomini e le donne di età superiore ai sedici, diciassette anni – raccontano di un mondo senza adulti, dove i ragazzi sopravvissuti oltre a dover cercare un modo per sopravvivere, possono scegliere da soli quali regole seguire e come convivere gli uni con gli altri. In altre parole, sono liberi di costruire da zero i modelli di comunità che corrispondano alla visione di mondo in cui più si riconoscono. Di conseguenza, la maggior parte del tempo nel corso di quegli incontri l’ho passato a ragionare con i ragazzi e le ragazze che avevano letto i libri su che cosa avrebbero fatto loro, se si fossero trovati nella stessa situazione dei protagonisti di Berlin, da quali valori si sarebbero fatti guidare per prendere le decisioni più difficili e perché.
Dalle loro riflessioni, dalle domande, dal coinvolgimento che percepivo andare ben oltre la finzione della narrativa, mi sono reso conto di una cosa: avevano una gran fame, un’urgenza, di far sentire ognuno la propria voce, di poter discutere di grandi temi. Ma non quelli cui avevamo pensato io e Fabio Geda per il mondo fittizio di Berlin. Quelli del nostro mondo, quelli che sentivano ogni giorno passare loro accanto o sopra la testa, sui social e nei giornali o in televisione: questioni aperte, sempre al centro del dibattito pubblico e delle polemiche tra le parti come i flussi migratori, la Brexit, i cambiamenti climatici, le diseguaglianze sociali, il terrorismo, la globalizzazione, la crisi economica. Ecco, quello che volevo fare con L’Europa in viaggio era offrire un’occasione per riflettere e confrontarsi su tutto questo, utilizzando proprio l’Europa – in tutti i significati che questa parola può assumere – come filo conduttore in grado di tenere insieme le singole parti. Questo perché – come scrivo nel libro – l’idea stessa di Europa per me è un’educazione alla complessità, un modo per guardare al mondo da cui deriva tutto il resto. Io poi non sono uno storico, un economista o un politologo, quindi non potevo avere la pretesa di scrivere una storia, al singolare. Potevo raccogliere alcune storie, ognuna delle quali avrebbe aggiunto una tessera al puzzle. E così ho passato un anno tanto bello quanto intenso a scegliere le persone da coinvolgere, a viaggiare per incontrarle, a chiacchierare con loro, a cercare di restituire come meglio potevo i loro sguardi, e infine a cucire insieme i pezzi. Era la prima volta che scrivevo qualcosa che non fosse narrativa, così quando ho finito la curiosità di scoprire che cos’era uscito fuori era pari al timore di aver combinato un disastro!

La Norvegia non è un Paese membro dell’UE anche se fa parte dell’area Schengen e partecipa all’Associazione Europea di Libero Scambio (EFTA) e allo Spazio Economico Europeo (SEE). Tu, nel tuo libro, parti proprio dalla Norvegia, precisamente da Oslo e da Utøya in cui il 22 luglio 2011 ci furono gli attentati che causarono 77 morti e diversi feriti. Perché hai deciso di partire proprio da lì?

Perché è vero, la Norvegia non fa parte dell’Unione Europea. Ma se non condivide con Italia, Francia o Germania le istituzioni europee, con le nostre società condivide alcune condizioni sociali, culturali e politiche che hanno reso possibile il compiersi di fatti tanto terribili. Esattamente come nelle nostre città, da alcuni anni, infatti, anche in Norvegia sempre più persone hanno paura. Paura del futuro, un futuro incerto per loro e i loro figli, paura magari dei nuovi vicini, di cui non conoscono spesso la lingua, la cultura, le abitudini, e paura per sentirsi abbandonati da chi invece dovrebbe proteggerli: la politica, le istituzioni. Ecco, che qualcosa che non conosci possa farti paura, io credo sia una reazione istintiva abbastanza normale. Il fatto è che se non riesci a controllare la tua paura, se lasci che prenda il sopravvento, allora quella paura si trasforma in rabbia, che ha bisogno di un nemico contro cui indirizzarsi per trovare uno sfogo. Ecco perché quello che è accaduto in Norvegia sarebbe potuto accadere ovunque in Europa: perché ovunque in Europa le società aperte che abbiamo cercato di costruire dalla fine della Seconda guerra mondiale, seguendo i valori della democrazia, della tolleranza, del rispetto dell’altro, a causa della crisi economica del 2008 e dei cambiamenti impetuosi imposti da una globalizzazione spesso incontrollata, hanno delle crepe. Degli elementi di fragilità in cui possono inserirsi i discorsi d’odio, facendo divampare la violenza dal piano delle parole a quello dei fatti, come successo appunto in Norvegia il 22 luglio del 2011.
Quello che però ha fatto il terrorista di estrema destra Anders Breivik sull’isola di Utøya – per la portata effettiva e simbolica del suo gesto e le conseguenze innescate – è uscito dalla cronaca per diventare archetipo. Pensiamo a cosa è successo: un’isola di proprietà di un’associazione giovanile, completamente deputata a ospitare centinaia e centinaia di ragazzi dagli 11 ai 20 anni, che passano una settimana a discutere e confrontarsi in laboratori e gruppi di lavoro, ma anche a divertirsi, lontani dagli adulti e le loro regole, in altre parole è una specie di piccolo paradiso terrestre. Peccato che su quest’isola un giorno si presenti un uomo vestito da poliziotto, e che senza spiegazioni inizi a sparare e uccidere uno dopo l’altro tutti i ragazzi e le ragazze che incontra, colpevoli di rappresentare tutto quello che lui odia. Per esempio l’idea che ciò che unisce le persone possa essere più importante di ciò che le divide, o che attraverso il confronto tra idee si possano raggiungere soluzioni condivise nel rispetto di tutti. L’unico argomento che Breivik riesce a contrapporre – come spesso fa chi non ne conosce altri – è quello della violenza, e così prima di venir neutralizzato le sue vittime sono 69, la più giovane di tredici anni, la più vecchia di diciannove. Ecco, quel 2 luglio del 2011 sull’isola di Utøya secondo me non si sono solo trovati di fronte dei ragazzi e un terrorista, si sono affrontate due idee di mondo. Due idee di mondo che riguardano tutti noi, ed è per questo che ho cominciato L’Europa in viaggio proprio da lì.

Utøya

Mi soffermerei sul sottotitolo del libro, Storie di ponti e di muri. Il muro blocca la vista, il passaggio; il ponte, invece, si può attraversare e grazie al ponte si può arrivare dall’altra parte. Attraverso quali strumenti, secondo te, si può promulgare un messaggio di Europa aperta, senza frontiere?

Per esempio partendo proprio dalla lezione di Utøya. La cui storia non è finita il 22 luglio del 2011. Molti dei sopravvissuti sono stati tra i primi a darsi da fare perché riaprissero i campi, e l’hanno fatto perché non volevano rassegnarsi a lasciare che Breivik vincesse due volte: una con le vite che aveva tolto, l’altra impedendo anche a loro di vivere la loro vita, seguendo gli ideali e i valori in cui credevano. Il primo campo dopo l’attentato di Utøya si è tenuto nell’estate del 2015, e ha visto la partecipazione di 1200 ragazzi e ragazze, oltre il doppio di quelli presenti il giorno dell’attentato. Da allora le attività sull’isola sono addirittura aumentate rispetto a prima del 2011, e l’isola è diventata un incredibile esempio di resilienza, di come anche dopo la più rovinosa caduta ci si può sempre rialzare, di come si può sempre scrivere un’altra storia. E quali armi hanno usato i ragazzi di Utøya per provare ad abbattere il muro di morte e violenza che Breivik aveva provato ad alzare? Le parole giuste. Perché le parole sono l’unico modo che abbiamo per dare forma al mondo che vogliamo abitare. Sta a noi scegliere quali usare, se parole d’odio, usate come un coltello per tagliare, per ferire, per gettare benzina sul fuoco. O parole capaci di costruire ponti verso l’altro, parole capaci di farci capire come quello che non conosciamo non debba essere per forza una minaccia, ma possa essere un’opportunità. Il fatto è che per conoscere quali parole usare, e quali conseguenze possono avere le parole, bisogna conoscerle. E la conoscenza è una pratica faticosa, non offre risposte semplici, mentre l’ignoranza è molto più comoda, e consolatoria. Peccato poi che le speranze che offre l’ignoranza si dimostrino spesso – se non sempre – illusioni. Bugie. Quindi, se dovessi scegliere uno strumento per costruire un’Europa in cui ognuno possa sentirsi a casa, direi la ricerca della conoscenza. Non come erudizione fine a se stessa, ma come pratica di libertà e democrazia.

Il tuo libro è attualissimo, basti pensare agli attentati che si sono succeduti in Francia, alla Brexit, ai migranti che continuano ad arrivare, agli esseri umani bloccati in territorio bosniaco… Nel libro riporti molte conversazioni che hai avuto con associazioni, volontari, amici: un bacino di informazioni utili, uno scambio con gli altri che permette la riflessione. Quando hai messo la parola “fine” al tuo libro, come ti sei sentito?

Spesso si dice che il bello dei libri è che in realtà non finiscano mai, che continuino a risuonare dentro la testa e il cuore dei loro lettori anche dopo aver chiuso l’ultima pagina. Ecco, la mia speranza è che valga qualcosa del genere anche per L’Europa in viaggio, e che dopo la fine io sia riuscito a passare il testimone a chi l’ha letto. Poi, l’aver incontrato alcuni volontari, attivisti, semplici individui che provano a darsi da fare ogni giorno, lontano dai riflettori, per qualcosa in cui credono, secondo me dovrebbe farci sentire tutti meno soli. Perché là fuori, da qualche parte, di gente così – che mette il noi davanti all’io – ce n’è tantissima, il problema è che non sempre ce ne rendiamo conto. Ne fossimo più consapevoli, forse sarebbe anche più facile credere alla possibilità che il mondo che abiteremo in futuro possa essere un posto migliore di quello di oggi. E che dipende tutto da noi, e da quanto sapremo rimboccarci le maniche per immaginarlo e realizzarlo.

Il Regno Unito, purtroppo, uscirà dall’Unione Europea. Una delle cose peggiori che questa scelta potesse portare è stata la decisione del governo Johnson di non confermare l’Erasmus. Almeno per ora (poi si vedrà nei negoziati) è arrivata l’ufficialità del no alla prosecuzione di uno dei progetti più importanti d’Europa per gli studenti universitari. Io ho fatto l’Erasmus in Francia e per me è stata un’esperienza bellissima. Anche tu, nel libro, racconti di aver fatto l’Erasmus. Cosa ti ha insegnato quest’esperienza? E, questa scelta del Regno Unito, cosa farebbe perdere ai giovani di tutta Europa?

Io ho fatto l’Erasmus a Berlino. E per uno come me, nato e cresciuto in una realtà protetta e di provincia come Asti, quando sono arrivato in una città del genere – una città che mi sembrava più un gigantesco luna park senza fine, aperto 24 ore su 24 – è stato uno shock. Ero terrorizzato. Tutto mi sembrava troppo grande per me, e io troppo piccolo per farcela. Mi guardavo attorno, e attorno vedevo solo persone lontanissime da quello che potevo essere io, estranei con cui credevo di non avere niente in comune. Poi, piano piano, ho iniziato a realizzare che tutto quello – come dicevo prima a proposito delle parole – non era per forza una minaccia, ma che poteva essere un’opportunità. Per mettermi alla prova. Per sperimentare stili di vita ed esperienze che altrimenti non avrei mai potuto fare. Per capire se ero davvero chi avevo pensato di essere fino a quel momento, o se invece lo avevo creduto solo perché non conoscevo le alternative. Poco per volta ho così scoperto anche che quei perfetti estranei non erano poi così diversi da me come pensavo, anzi: visti da vicino avevamo molte più cose in comune rispetto a quello che poteva sembrare all’inizio. E quello che ho provato allora, per la prima volta in vita mia, è qualcosa che non dimenticherò mai: che quello che potevo chiamare casa, era un posto molto più grande di quello che pensavo. Ed è stato bellissimo. Mi ha fatto sentire vivo, e libero, in un modo diverso, più completo, più consapevole.
Al contrario, quello che è successo con la Brexit – se venisse confermata anche l’interruzione dei programmi Erasmus tra UE e Gran Bretagna – sarebbe una sconfitta per tutti. Come ogni volta che una grande famiglia, una famiglia la cui ricchezza sta proprio nell’eterogeneità dei suoi componenti, perde un pezzo. In casi del genere non c’è mai qualcuno che vince, tutti ne escono un po’ più poveri, un po’ più piccoli, un po’ più miseri. Conto comunque che quello del Regno Unito più che un addio sia un arrivederci, a quando finalmente il vento nel nazionalismo, del sovranismo e dell’antieuropeismo avrà perso la sua carica corrosiva.

Alla fine del tuo libro dai una bibliografia di titoli che secondo te sono formativi e importanti. Ci consiglieresti un libro, un fumetto, un film e una serie tv (o anche di più se vuoi!) che secondo te possono aprire le menti e abbattere i muri?

Con grande piacere! Iniziando dal libro, non posso che citare Il pericolo di un’unica storia, di Chimamanda Ngozi Adichie (Einaudi): uno straordinario, e lucidissimo, e divertente monologo sugli stereotipi e sul loro subdolo modo di agire dentro ognuno di noi, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. Per il fumetto dico invece La crepa di Carlos Spottorno e Guillermo Abril (add editore), un ibrido tra graphic novel e reportage che racconta in un modo del tutto nuovo e con una forza visiva pazzesca che cosa sono oggi le frontiere d’Europa, con le loro storie di scontri e di incontri. Il film non può che essere il recentissimo Jojo Rabbit, del regista neozelandese Taika Waititi, che mi ha fatto ridere e piangere tantissimo e spesso allo stesso tempo: il protagonista è un ragazzino di dieci anni che, nella Germania nazista nel pieno della Seconda guerra mondiale, è profondamente affascinato dalla propaganda del regime. Almeno finché qualcosa non gli sconvolge la vita, arrivando a mettere in crisi ogni sua certezza. Come serie Tv invece direi Battlestar Galactica: sì, proprio la serie di ormai qualche anno fa di fantascienza. Il fatto è che Battlestar Galactica va molto oltre ai confini del genere: è una riflessione sui sogni, e le paure, e le speranze più profonde dell’uomo. Sulla paura del diverso. Sulla fiducia nel prossimo. Su quello che ci rende davvero umani. Il tutto raccontato mettendoci dentro astronavi, battaglie spaziali, viaggi tra le stelle: per chi è cresciuto negli anni Ottanta come me, ecco, è qualcosa al cui fascino non puoi proprio resistere.

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