“Fino alla fine del fiato” di Marco Magnone – Tra prime volte, orrori e perché

C’è una bella differenza tra scrivere di ragazzi e scrivere per ragazzi. Troppo spesso, nella letteratura per adolescenti (ma anche per più piccoli), s’incappa in libri che dovrebbero essere per ragazzi che invece per loro non sono affatto. Non parlano a loro direttamente, non con la loro lingua, perché si pensa che basti scrivere «semplice», confondendo però la semplicità con la banalità o, peggio, la sciatteria. Una citazione attribuita a Dino Buzzati afferma: «Scrivere per ragazzi è come scrivere per gli adulti, solo più difficile». Eccome se lo è, perché la semplicità è la cosa più difficile da ottenere e nasconde un’impensata complessità, e i ragazzi meritano una letteratura che sia alla loro altezza.

Marco Magnone è, decisamente, un (eccezionale) scrittore per ragazzi. Lui, quegli esseri metà bambini e metà adulti, li indaga nel profondo, a loro parla costantemente instaurando un dialogo, e ancora una volta, nel suo ultimo romanzo Alla fine del fiato pubblicato da Mondadori, lo dimostra, regalando un libro che si legge davvero tutto d’un fiato tanto è difficile staccarsene.

Le voci di questo romanzo sono tre, che si alternano di capitolo in capitolo: quella di Seba, alto e biondo, un leader nato, che ci crede davvero alla possibilità di cambiare le cose e il mondo e sembra aver già capito che fare nella vita; quella di Filippo, migliore amico di Seba, che invece è l’opposto suo e a stare ai margini della scena si è abituato in fretta; poi c’è Martina, sorella di Filo, che non è solo brava a giocare a calcio, ma per lei quello sport è «un luogo dove si sente possibile, dove si sente davvero se stessa», ma fuori dal campo, con le altre ragazze, si sente scoordinata e pesante, fuori tempo e fuori posto. 

Impariamo a conoscere i tre ragazzi e il mondo che ruota loro attorno all’Isola, un luogo come sospeso e circondato da montagne, dove ogni anno, alcuni adolescenti tra i 13 e 18 anni si trovano insieme per fare le cose che fanno i ragazzi, e cioè raccontarsi storie attorno ai falò, mettere un po’ di musica, portarsi dietro di nascosto del fumo per condividerlo, ballare tutta la notte mentre si attrezzano i cuori per i primi amori. Ma non solo, perché l’Isola è un posto di dove costruire futuri possibili.

Un posto dove i ragazzi, per qualche giorno, possono prendersi una boccata d’aria dal mondo, e parlare di ciò che vogliono. Far sentire la propria voce e ascoltare quelle degli altri su questioni come ambiente, diritti, politica, giustizia sociale, futuro. Ma anche un posto dove la sera poter fare un po’ di festa in santa pace, senza disturbare nessuno, e senza che nessuno disturbi loro.

È la vigilia del solstizio d’estate, e tutto sembra perfetto solo come certe notti d’estate di quando si è ragazzi sanno essere. Seba da qualche tempo guarda a Martina in una maniera che non gli era mai capitato prima, e quando è con lei Seba non è più Seba. Anche Marti sembra ricambiare, e Filo non può fare a meno che notare questa vicinanza, trovando quindi una nuova ragione per sentirsi escluso. Ma forse è possibile uscire dall’ombra, gettare una propria luce, continuando a provarci e cercando nuove amicizie?

Nei primi capitoli, Magnone apparecchia caratteri, rapporti, amicizie, primi amori, grandi sogni e piccoli desideri, solitudini e paure, facendoci conoscere meglio Seba, Marti e Filo e tutti i compagni che in quel momento si trovano all’Isola. Insomma, ci mette comodi, e in poche pagine sentiamo vicini i personaggi e ci ritroviamo a pensare, inguaribili nostalgici, a quelle serate passate. Alle nostre prime volte. Ma dura un attimo, perché sappiamo già che quella calma apparente verrà rotta, e andiamo avanti con una sensazione di sottile angoscia in sottofondo, perché non possiamo dimenticare le prime pagine. Čechov ha detto che, se in un racconto compare una pistola, bisogna che prima o poi quella spari. Ecco, questa frase potrebbe riassumere l’incipit del romanzo.

Questo è quello che fanno le armi: sparano. Di solito lo fanno alle persone, che di solito muoiono. Anche se non è una scelta loro, delle armi. Alle armi non frega niente. Sono altre persone a volerlo. Sempre. Per le ragioni più diverse, o anche per nessuna. In fondo, però, questionare sulle ragioni non fa molta differenza. Né per chi se ne va, né per chi resta.

C’è un uomo con una carabina che prende un sentiero di montagna in mezzo a un bosco, e maciniamo le pagine del romanzo con la consapevolezza che sta per accadere qualcosa di terribile. E quando succede, quando l’equilibrio viene spezzato, rimaniamo impietriti di fronte all’orrore e alla sua lucidissima insensatezzaPerché?, è quello che ci chiediamo, incazzati, tristi, impotenti. Perché?, è quello che si chiedono Seba, Marti e Filo e gli altri ragazzi. Perché?, è quello che probabilmente si sono chiesti i ragazzi di Utøya, una piccola a isola a nord di Oslo, il 22 luglio del 2011 quando un terrorista di estrema destra, Anders Behring Breivik, ha tolto la vita a sessantanove persone, di cui la maggior parte ragazze e ragazzi tra i tredici e i diciotto anni. Fatto che ha ispirato Magnone nella creazione di questo romanzo, e che lo ha portato a intervistare (e a dedicare ad) alcuni dei sopravvissuti alla strage anche per capire: ma come si fa a sopravvivere a una cosa così?

E infatti, la cosa che più ho apprezzato di Fino alla fine del fiato – oltre a una scrittura lucidissima, tesa, commovente, in cui l’autore sembra davvero usare tutte le parole giuste e metterle in fila – è proprio il fatto che non si sia fermato al momento della risoluzione finale. Altri avrebbero interrotto la narrazione quando il peggio è passato, il nemico abbattuto e la storia sembra conclusa, e invece è proprio lì che la storia vera inizia. Cosa accade dopo? È possibile, semplicemente, andare avanti? Quando tutto sarà finito, cosa resterà di questi ragazzi, del prima, della vita che avevano?

Forse, come dirà Seba a un certo punto, il punto della questione sta proprio qui, nell’accettare il fatto che non si è intoccabili per sempre, che esistano «cose capaci di sporcarti» e che ti si attaccano addosso senza che tu lo voglia o possa farci qualcosa e, nonostante questo, andare avanti comunque. Questo è un romanzo, quindi, da far leggere agli adulti e ai ragazzi più grandi, per instaurare un dialogo su uno dei temi attuali più complessi (e dolorosi) da affrontare e per provare – insieme – a cercare un perché all’orrore. Io non posso che consigliarvi di leggere questa storia potente, augurandovi di rimanere, come me, senza fiato.


Se volete scoprire qualcosa di più su Marco Magnone, ecco due approfondimenti a cura di Cristina Catanese: La mia estate indaco – Sfumature “violacee” di vita adolescenziale e L’Unione europea: una storia di ponti e di muri – Intervista a Marco Magnone.

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