philip-kerr-fazi-editore

Tornano le Violette di marzo di Philip Kerr

Non ho mai letto nessun giallo storico, credo – a meno che Il nome della rosa non possa essere considerato (anche) in questa categoria ma – Violette di marzo non va certo al risparmio.

Tra le strade della Berlino pre–guerra, che ha iniziato la repressione attiva del dissenso, si muove il detective privato Bernhard Gunther, immerso in una routine fatta di piccole investigazioni, fino a quando si vede arrivare un’offerta che non può (tassativamente, non può) rifiutare: scoprire chi abbia ucciso la figlia e il genero di un ricco industriale.

Violette di marzo di Philip Kerr, edito per la prima volta nel 1989, torna in libreria il 30 gennaio 2020 con un’edizione di Fazi Editore: un take assolutamente credibile del genere giallo nella sua versione più pop e pulp, quella dell’hard boiled statunitense.

violette di marzo philip kerr fazi editore

L’investigatore privato che prima faceva un altro lavoro – nel caso di Bernie Gunther, un ruolo di spicco proprio nella polizia berlinese – lo abbiamo; ovviamente è burbero, solitario, ha un’accentuata passione per l’alcol e, chiaramente, ha bisogno di soldi. Per questo accetta casi come quello di Hermann Six, che gli ha promesso, per invogliarlo ad accettare, una ricompensa che lo sistemerebbe per un bel po’. Il genero, una violetta di marzo (cioè un adepto dell’ultima ora del partito hitleriano), ha lasciato tutto in eredità al Reich, compresi gli averi della moglie, cioè Grete Six, che non aveva ancora fatto testamento.

Naturalmente, questo investigatore/protagonista desidera molte donne, da cui è desiderato e nei quali letti riesci a entrare, a volte per il proprio (indiscusso, sembra voler farci credere l’autore) fascino, altre perché vuole sfruttare la (indiscussa, sembra volerci suggerire l’autore) debolezza e il sentimentalismo di una donna che, una volta sedotta, non può rifiutarsi di collaborare o svelare qualche segreto. E altre ancora perché da queste donne viene ripagato con la stessa moneta e, quindi, usato a loro vantaggio.

L’inizio della Trilogia Berlinese di Philip Kerr

Tutto si svolge nel 1936, in una Berlino che si sta organizzando su due fronti – e non uso questa parola bellica con leggerezza: quello delle Olimpiadi, con tutte le implicazioni che l’esaltazione della forma fisica perfetta e della competizione avevano nella propaganda nazista e fascista, e quello del Nazismo, con Hitler che è già Führer della Germania da due anni e che sta aizzando sempre di più i propri seguaci.

Il quadro dei dettagli storici, dei (terribili) nomi conosciuti da noi solo sui libri di storia che si intrecciano con quelli oscuri e dimenticati delle persone comuni e, anche, delle ricadute nel piccolo che i grandi atti stavano avendo è raccontato perfettamente da Philip Kerr, con una maestria tale da non lasciarci dubbi sull’ambientazione e calandoci, sempre di più, nell’atmosfera che già odorava di Seconda Guerra Mondiale.

Ogni lettore, però, che abbia un po’ di familiarità con i gialli deduttivi o con qualche studio di teoria della letteratura o di strutture narrative (quello che è, insomma, un lettore sgamato), o che abbia avuto una mia madre come la mia che ci ha cresciuti a colpi di Chi l’ha visto? e Lucarelli, riuscirà a concludere gran parte dell’indagine a un quarto del libro. È uno dei pregi e, al tempo stesso, dei difetti di un genere codificato come il giallo: la prevedibilità della trama significa, da una parte, un’adesione (o un omaggio) al canone, quindi una piena consapevolezza che non può lasciare spazio agli errori. Perché si tratta di un’indagine da cui dipende molto più che una ricompensa o un pagamento

Dall’altra, però, è difficile non provare un po’ di fastidio: non solo per la risoluzione anticipata del mistero, ma per alcuni attimi di incoerenza. Per esempio quando Bernie dice che deve dirigersi a Berlino Est –  nome con cui questa parte della città fu conosciuta a partire dal 1945, e non prima. Oppure durante questa scena: 

«Sono messo male, eh?».
«Anche peggio». L’Inspektor fece rotolare la sigaretta tra le labbra e sussultò, quando gli entrò il fumo negli occhi. «Vuoi che ti chiami un avvocato?».

Nonostante non sia riuscita a scoprire se, effettivamente, in Germania e soprattutto a fine anni Trenta fosse usanza chiamare un avvocato in una circostanza simile, è una frase troppo “cinema statunitense” per non trovarla fuori luogo. È come un pizzicotto fortissimo dato da Kerr stesso al braccio che tiene il libro. Improvvisamente, ti ricordi che sei seduto sulla 61 a Milano e sei nel traffico e stai andando a lavoro. Oh. 

Fortunatamente, Philip Kerr si redime proprio sul finire delle Violette di marzo, lasciando con sapienza molti interrogativi aperti, sospesi: chiarendoci così che, se pensavamo davvero che tutto sarebbe stato facilmente risolvibile, avremmo dovuto fidarci di più e che, soprattutto, questo è solo l’inizio di una Trilogia Berlinese. 


Se vuoi leggere qualcosa in più su Berlino, trovi tutto qui.
Se invece vuoi leggere l’ultimo articolo di Tropismi che tratta di gialli, ti consiglio Nestor Bruma e la bambola – Una nuova avventura firmata Léo Malet di Paola D’Aulerio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.