Ai sopravvissuti spareremo ancora – Intervista a Claudio Lagomarsini

«Di tanti che eravamo siamo rimasti in pochi», comincia così il romanzo d’esordio di Claudio Lagomarsini, Ai sopravvissuti spareremo ancora, uscito per Fazi Editore il 23 gennaio 2020. Il Salice, soprannominato così dal fratello maggiore Marcello, torna in Italia, nella sua cittadina di provincia, perché la madre gli ha affidato il rognoso compito di seguire la vendita della casa in cui la famiglia ha abitato per diversi anni. Fin da subito si entra in empatia con il Salice perché tornare fa sempre uno strano effetto, soprattutto in una casa in cui non si entra e si vive da tempo. La versione anziana della madre del Salice la vediamo poco: si è trasferita in un appartamento più piccolo perché il marito non sta bene e forse perché i ricordi legati al vecchio appartamento sono troppo dolorosi e incombenti. Il Salice deve controllare se nella vecchia abitazione tutto sia stato inscatolato, poi ci penserà l’agenzia. Mentre si riabitua alla casa, alle stanze, al luogo come simbolo delle proprie radici, il Salice, aprendo una scatola, vi trova dentro dei quaderni.

Prendo in mano il primo, inizio a sfogliarlo ma fatico a leggere. Non riesco a decifrare quasi nessuna parola, è una grafia veloce […] Mi ci è voluto qualche secondo. Quando riconosco la grafia piccola e nervosa di Marcello il cuore mi rimbalza in gola. Impiego diversi minuti per imparare di nuovo a leggerla, capire che quella che sembra una l è in realtà una b, quella che leggevo come n dev’essere una doppia s, la g è tracciata in quel modo stilizzato che la rende troppo simile a una q. Sfogliando, scorrendo passaggi a caso, mi accorgo che dev’essere il manoscritto del suo romanzo.

Sono stati scritti dal fratello maggiore Marcello durante l’estate del 2002, un’estate strana, scandita da tensioni familiari, da primi amori, da versioni di greco e latino per Marcello, da giorni passati in spiaggia per il Salice. Proprio il Salice si rende conto, iniziando a leggere, di essere stato soprannominato così dal fratello che ne ha da dire su chiunque: sulla mamma sottomessa a Wayne (un soprannome anche questo), il suo compagno, burbero e un po’ rozzo; sulla nonna arzilla e innamorata del Tordo, il vicino di casa, un vecchio blaguer con una moglie in fin di vita; su Diego e Ramona, figli di Wayne; su Sara, la compagna di classe di cui è innamorato Marcello, sugli americani in visita… Nei quaderni è raccolta la storia della loro famiglia.
Con una scrittura ritmata e scorrevole, ci si immerge subito in questa casa di famiglia, passando dall’orto al gazebo del Tordo sotto cui si fanno grandi cene impregnate di vino scadente. La caratterizzazione dei personaggi colpisce, soprattutto per le descrizioni fisiche e caratteriali che Marcello trascrive sul diario, dando quasi l’impressione al lettore di conoscere questa famiglia da sempre. D’altronde, lo scrisse per primo Tolstoj in uno degli incipit più noti: «Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a suo modo».
Ai sopravvissuti spareremo ancora è un ottimo romanzo d’esordio per la sensibilità narrativa, per la lucidità con cui l’autore descrive paesaggi (che sono protagonisti tanto quanto gli esseri umani) e personaggi, per le emozioni adolescenziali di cui racconta Marcello perché non tradiscono la sua voce narrante di diciottenne, per il dolore che tutti proviamo – almeno una volta – quando facciamo i conti con la nostra famiglia. Per questi motivi, spinta da curiosità, ho fatto qualche domanda a Claudio Lagomarsini.

Ciao Claudio! Intanto grazie della disponibilità!
Ciao! Grazie a te.

Questo è il tuo romanzo d’esordio. Come è nata l’idea di raccontare questa storia?
L’idea è nata, prima di tutto, dalla constatazione che nessuno aveva mai raccontato l’ambiente da cui provengo, cioè la provincia sul confine tosco-ligure; per cui mi sono detto che avrei potuto provarci io, ovviamente partendo dalla mia esperienza. La costruzione della storia è andata a ritroso, partendo dal finale (che ovviamente non svelo): a un certo punto del racconto entra in gioco una targa di alluminio con una scritta minacciosa. Ecco, quella targa esiste davvero, e una volta mi sono chiesto: che cosa succederebbe se una minaccia del genere si trasformasse in realtà?

Come ci si sente ad avere il tuo primo libro tra le mani?
Questo è il mio esordio, sì. Vedere il libro stampato e soprattutto andare in libreria e trovarlo esposto è una grande emozione, ma non ti nascondo che fa anche una certa paura. Sullo scaffale il mio cognome viene dopo quello di un premio Strega, Nicola Lagioia. L’accostamento mi dà un po’ di inquietudine, ma spero che mi porti anche fortuna.

Il titolo del tuo libro mi piace molto, anche perché si lega anche all’incipit del romanzo: «Di tanti che eravamo siamo rimasti in pochi». Il titolo era questo fin dall’inizio?
Sì, il titolo è rimasto immutato fin dall’inizio ed è legato proprio alla targa d’alluminio di cui parlavo prima. Mi piaceva anche perché si presta sia a un’interpretazione letterale sia a una lettura simbolica. Dopo molti anni alcuni personaggi sono scomparsi mentre altri sono ancora vivi. Questa sopravvivenza, però, risulta tale non solo rispetto alla morte ma anche nei confronti dei ricordi che, ad anni di distanza, continuano a tormentare il narratore, quasi sparandogli contro.

Come mai hai deciso di usare l’espediente dei quaderni?
I quaderni di Marcello e la loro lettura da parte del Salice (suo fratello) permettono di affiancare e far interagire due voci a distanza di anni. Quando iniziamo a fidarci di quanto ci racconta Marcello prende la parola il Salice, che ridimensiona il primo racconto o ne mette in dubbio alcuni aspetti. Inoltre, i quaderni hanno una materialità: alcune pagine sono state strappate, altre presentano delle cancellature. Lo stesso Marcello, quindi, è intervenuto a censurarsi, e dobbiamo chiederci perché.

Quanto il tuo lavoro di ricercatore in filologia ha influenzato la tua scrittura?
Come filologo mi trovo a lavorare con manoscritti che, proprio come i quaderni del romanzo, chiedono di essere interpretati, anche nei loro aspetti materiali: una parola cancellata può avere più importanza, a volte, di quella che un autore ha consegnato alle stampe. Ma il mio lavoro ha influito anche in altri aspetti: la ricerca linguistica, ad esempio, che per me è stata fondamentale mentre scrivevo.

Io credo che nel tuo romanzo ci siano diverse tipologie di dolore. Tu cosa ne pensi?
Sono d’accordo. Soprattutto mi sembra molto diverso il dolore che i due fratelli provano a distanza di anni. Marcello è un diciottenne arrabbiato e solo, cresciuto in una famiglia problematica alla quale attribuisce tutte le colpe della propria infelicità. Il Salice, quando lo conosciamo meglio, è un adulto che fa i conti con un passato familiare difficile ma, allo stesso tempo, cerca di non perdere la tenerezza per le persone a cui vuole o ha voluto bene.

I tuoi personaggi sono caratterizzati benissimo, tanto che durante la lettura mi sembrava di stare nel giardino del Tordo con il Salice, Marcello, la nonna & co. Allo stesso tempo, credo che anche il paesaggio abbia un ruolo predominante. Hai scelto di ambientare la tua storia in una provincia del 2002. Quanto hai attinto dalla tua città di provenienza? E, soprattutto, quali differenze percepisci tra una provincia dei primi anni Duemila e una provincia odierna?
Il vicinato nel quale si svolge il romanzo è molto simile a un luogo nel quale ho vissuto per diversi anni (un quartiere di Avenza, che è una frazione di Carrara) prima di trasferirmi a Firenze, dove abito adesso. Era un luogo strano perché non solo si trovava in provincia, non solo era sul confine tra due regioni ma era anche isolato dai centro urbani più vicini. Nel romanzo ho tentato di restituire questa sensazione: sei in una cittadina dell’Italia nord-occidentale molto specifica e caratterizzata, ma potresti anche essere in Arizona e, tutto sommato, non ci sarebbero enormi differenze. Luoghi così hanno il pregio o il difetto di restare cristallizzati nello spazio ma anche nel tempo. Questo per dire che ad Avenza, oggi, non vedo grandi differenze rispetto al 2002.

Chi sono gli autori e le autrici che ti hanno accompagnato durante la stesura del tuo romanzo?
Sono un lettore onnivoro ma smemorato. Cercando nel mio profilo Instagram vedo che nell’estate del 2017, quando il romanzo ha cominciato a prendere corpo, ho letto Via Gemito di Domenico Starnone, un autore che amo molto e di cui, poi, ho divorato quasi tutti i romanzi. Il padre feroce del protagonista di Via Gemito mi ha aiutato, probabilmente, a perfezionare i caratteri dei miei uomini feroci, il Tordo e Wayne. Invece durante l’ultima fase di sistemazione del testo, l’estate scorsa, ho letto con grande piacere La straniera di Claudia Durastanti. Nella sua Basilicata (ma anche nella sua Brooklyn) ho trovato con grande sorpresa diversi elementi in comune con la mia provincia.

Dopo Ai sopravvissuti spareremo ancora, hai già iniziato a lavorare a qualcos’altro?
Non ancora. Sono nella fase in cui prendo appunti su cose che mi incuriosiscono e che, forse, potrebbero trasformarsi in racconto. Quando mi rimetterò a scrivere, mi piacerebbe raccogliere almeno due sfide, cioè approfondire i personaggi femminili e provare a uscire dalla (dis)comfort zone della mia provincia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.