Francesco Costa

Questa è l’America, spiegata bene. Intervista a Francesco Costa

Leggere Questa è l’America se non si sa chi sia Francesco Costa è facile quanto leggerlo se lo si conosce da anni, se si seguono le sue newsletter,  se si segue il suo lavoro come vice-direttore del Post, se si ascoltano i suoi podcast.

Perché Questa è l’America è una raccolta di saggi che cerca di raccontare le storie alla base dei movimenti politici e culturali attuali, cerca di spostare lo sguardo dallo stereotipo dello yankee armato fino ai denti, conservatore e contro i diritti degli omosessuali. Oppure lo stereotipo degli Stati Uniti come Terra Promessa, approdo di tutti i desideri, e di tutte le svolte tecnologiche. O meglio, Questa è l’America parla di tutto questo, senza però appiattire il discorso. È come se ci stesse chiedendo di approfondire, di andare al cuore delle faccende e di non affrontarle con superficialità.

Lo ha sempre fatto anche con Da Costa a Costa, il progetto giornalistico che cura ormai dal 2015 e che è cambiato, migliorato, cresciuto in questi anni e da cui nasce questa raccolta di saggi.

Un’introduzione per chi non legge (e ascolta) da sempre la tua newsletter: questa tua passione per gli Stati Uniti c’è sempre stata?

Sempre-sempre no, ma sempre da quando faccio questo mestiere. È una cosa nata anche un po’ per caso. Nel 2007 seguivo già da qualche tempo le primarie del Partito Democratico, le prime incredibili primarie di Barack Obama, con un blog dilettantesco che aggiornavo nel tempo libero da tanti anni. Dopo un po’ di gavetta e lavoro gratuito alla fine di ottobre del 2008 ottenni il mio primo contratto di collaborazione con un quotidiano. Entrai in redazione a tre giorni dalle elezioni presidenziali di novembre. La notte delle elezioni dalla redazione mi dissero di infilarmi nel pub dove gli americani a Roma avrebbero seguito la notte elettorale: il mio primo incarico giornalistico. Mi ritrovai al centro di questa folla di persone che festeggiavano incredule e piangevano di gioia. Capisci che da una cosa del genere non ci si riprende.

Francesco Costa
Francesco Costa

Quanto tempo ci hai messo a raccogliere le storie che troviamo dentro Questa è l’America? Come le hai trovate?

Mi occupo di Stati Uniti di fatto da allora, dal 2007, ma queste storie sono soprattutto il frutto del lavoro che ho fatto dal 2015 a oggi attraverso Da Costa a Costa, che è composto da una newsletter e un podcast e che nel tempo si è esteso sempre di più. Tutti i contenuti di Da Costa a Costa sono diffusi gratuitamente ma esistono grazie alle donazioni facoltative eppure numerosissime di migliaia di lettori e ascoltatori, che nel tempo mi hanno permesso di documentarmi molto ma soprattutto di andare negli Stati Uniti, soprattutto nei posti meno battuti, a indagare e cercare tante delle storie che ho raccontato nel libro. Negli anni grazie a Da Costa a Costa sono stato in Texas e in California, in Iowa e in Michigan, in Ohio, in Pennsylvania e in New Hampshire. E presto ci ritornerò di nuovo. È un lavoro che ormai anche tanti giornali non riescono a permettersi.

Il libro è costruito a mosaico, come se ogni pezzo di storia dovesse inserirsi in un disegno più grande. Come hai deciso di costruirlo?

Sono convinto che chi sa solo di politica, non sa niente di politica. E mi sembra che troppo spesso, raccontando l’America di oggi, l’elezione di Trump, l’eredità di Obama, l’ascesa di Sanders, si finisca per discutere con superficialità applicando criteri e categorie europee oppure, peggio ancora, basandoci sul nostro tifo politico locale. E ovviamente condendo il tutto con i tanti luoghi comuni che abbiamo sugli Stati Uniti. Quindi ho pensato che un libro che provasse a raccontare cosa sono oggi gli Stati Uniti dovesse partire dalle persone che li abitano e dalle loro storie, e da lì allargare l’obiettivo per discutere di alcuni grandi cambiamenti collettivi. In questo senso ogni storia del libro è allacciata alle altre, anche se inizialmente potrebbe sembrare di no.

Quale di queste storie ti ha appassionato di più?

Ci sono storie che mi hanno attorcigliato lo stomaco a lungo, per esempio quella di Flint, la città che ha bevuto per anni acqua avvelenata, e quella gigantesca dell’abuso di farmaci antidolorifici. Ma il posto più appassionante d’America in questo momento è il Texas. C’è tutto, in Texas: l’ingenuità e l’ingegno, la tolleranza e l’intolleranza, il deserto e il confine, la parte più giovane, dinamica ed etnicamente diversa del paese e quella più rurale e conservatrice. Le biotecnologie e i pozzi di petrolio, gli hipster e i cowboy che governano le mandrie. Il tutto in un posto straordinariamente affascinante – ed estremo, in certe parti – dal punto di vista geografico e naturale.

Ci sono diversi filoni, svelati o meno, che raccontano alcune tue ossessioni. Una in particolare è quella legata ai media e a come gestiscono le notizie. L’esempio più iconico è la vicenda di Huston: una ragazzina con la maglia di Trump viene contestata aspramente da una signora in coda con lei in un negozio. Quello che è un piccolo episodio spiacevole, diventa una situazione virale, incontrollabile e che sfiora la violenza fino a che non si passa a una nuova notizia succosa. Pensi che sia una delle chiavi di lettura per interpretare gli Stati Uniti, e non solo, oggi?

Come dici tu: gli Stati Uniti e non solo. L’informazione ha influenze e responsabilità enormi in quello che succede e in quello che non succede nel mondo; in quello di cui si parla e in come se ne parla, e in quello di cui non si parla. È un ruolo meno indagato e discusso di quanto meriterebbe, secondo me: anche perché chi avrebbe il pulpito per farlo, se non l’informazione stessa? E noi giornalisti non amiamo davvero mettere in discussione quello che facciamo e come lo facciamo; quei pochi che lo fanno non si attirano certo le simpatie dei colleghi. Però è necessario: senza questo sforzo si perde la comprensione di un tassello fondamentale per spiegare quello che ci succede intorno. Nel libro ci provo: è impossibile capire fino in fondo la radicalizzazione degli americani – e quindi l’ascesa di personaggi come Trump e Sanders, che un tempo sarebbero stati completamente marginali – senza discutere di come è cambiata l’informazione statunitense.

Come sta proseguendo il tuo lavoro per la tua newsletter Da Costa a Costa? Hai intenzione di tornare ancora negli Stati Uniti durante le primarie?

La newsletter sta andando benissimo, gli iscritti sono ormai quasi ventimila e il tasso di apertura supera il 60 per cento, che per una newsletter è tantissimo. Il podcast ha decine di migliaia di ascolti ed è sempre ai primi posti in classifica su iTunes. La raccolta fondi potrebbe superare già ad aprile il totale raccolto nel 2017. Ma soprattutto l’affetto e la partecipazione di lettori e ascoltatori è incredibile. Ricevo ogni giorno idee, spunti, critiche, osservazioni, e tutto questo migliora moltissimo il mio lavoro, oltre a essere una grande responsabilità. Tornerò negli Stati Uniti a luglio e in agosto per seguire le convention dei due partiti, in Wisconsin e in North Carolina; e poi magari un’altra volta prima delle elezioni, ma non so ancora dove.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.