Nei panni del compositore – Intervista a Nicola Campogrande

L’Italia, ce lo diciamo spesso, è un paese formato da 60 milioni di commissari tecnici. E scrittori, cantanti, esperti di televisione e di moda. Ci sentiamo in diritto di giudicare un gol sbagliato, una vittoria di Sanremo che non ci aggrada, un vestito per una cerimonia importante che non avremmo mai messo, e lo facciamo senza aver bisogno di studiare la materia. Per empatia, luogo comune, gusto. Uno dei pochi campi che non andiamo mai a toccare è quello della musica classica. Difficile, poco accessibile, riservata ad un’élite di persone.

E dire che la musica classica è un patrimonio comune a tutti noi, una delle poche cose che possiamo veramente definire universali. Chi non conosce l‘Inno alla gioia di Beethoven, o la Cavalcata delle Valchirie di Wagner? Tutti noi, istintivamente, quando prendiamo contatto con la musica classica ne assorbiamo le emozioni, seguiamo i crescendo e diminuendo, il piano e il forte. Ci lasciamo catturare dalla magia, senza capire il trucco, come nei migliori spettacoli del genere.

Nicola Campogrande, che ho avuto il piacere di conoscere in questo anno di Scuola Holden, è insieme un mago e un maestro, come quelli di Hogwarts. Compositore, certo, e insieme direttore artistico del festival MITO, giornalista, uno dei grandi protagonisti del panorama musicale italiano. In questi mesi è uscito Capire la musica classica ragionando da compositori per Ponte alle Grazie, una lettura lieve e profonda, tecnica e appassionata della musica classica, partendo dalle basi: gli strumenti, i generi, le epoche storiche, i concetti di base. E ovviamente tanta buona musica, a cominciare dai primi due esempi citati: Le quattro stagioni di Vivaldi, che noi tutti conosciamo, e Become Ocean di John Luther Adams. Non la conoscete? Andatela ad ascoltare, a me ha aperto un mondo. E, prima che ve lo chiediate: sì, anche questa è musica classica.

Carissimo Nicola, innanzitutto grazie per aver accettato questa intervista. In Capire la musica classica ragionando da compositori ci accompagni in un viaggio che copre secoli di musica, facendoci toccare con mano gli strumenti e indicandoci esperienze artistiche diverse e affascinanti. Com’è stato il tuo battesimo del fuoco con la musica classica? Cosa ti ha spinto ad avvicinarti a questo mondo?

Ohibò, sai che non è facile risponderti? Da che ho memoria sono attratto dalla musica, e da bambini non si fa molta distinzione tra i generi. A un certo punto ho cominciato a suonare il pianoforte, e le partiture che mi mettevano sul leggio contenevano musica classica. Per me, bellissima. È stato solo dopo che ho imparato a distinguere, a rendermi conto che una cosa era Bach e un’altra Bennato (ho sempre strimpellato un po’ la chitarra, per cantare con gli amici). Verso la fine delle elementari, direi. A dodici anni – e su questo posso essere preciso – ho poi sentito usare per la prima volta l’espressione «studiare composizione»; e da quel momento, dal pomeriggio in cui un insegnante di pianoforte è riuscito a dare un nome a un desiderio che sentivo fortissimo ma non sapevo pronunciare, non ho più avuto dubbi, nemmeno per un giorno, sul mestiere che avrei provato a fare. E che, con mia grande gioia, faccio davvero.

Nel libro ci spieghi con chiarezza e agilità le differenze tra musica da camera e musica sinfonica, barocco e classicismo viennese. Sono nozioni che non conosciamo o che confondiamo. Il paradosso è che la musica classica, un patrimonio culturale e artistico indiscusso, venga relegata nella formazione di una persona a due ore settimanali alle scuole medie. O almeno è così per noi italiani. Quest’anno hai incontrato per un anno gli studenti della Scuola Holden per insegnare loro una sorta di alfabeto musicale. Che tipo di esperienza è stata? Quale può essere il modo più adatto per insegnare l’educazione alla musica?

I modi per educare alla musica sono tanti. Io, per una mia disposizione naturale, e, devo dirlo, anche per curiosità, ho provato a inventare per la Scuola Holden un corso che mettesse gli studenti nei panni di compositori – un po’ come in Capire la musica classica ragionando da compositori, dove il gioco è quello di considerare il lettore come un collega speciale, che magari non sa né deve sapere leggere e scrivere la musica ma viene condotto a scoprirne i meccanismi, le tecniche, i segreti. Avendo un anno accademico a disposizione, gli studenti sono andati molto al di là dei confini del mio piccolo saggio, e hanno imparato anche a leggere e a scrivere la musica. Sono dunque diventati capaci di decifrare una partitura, di capirne i tratti formali, di distinguere le funzioni armoniche in una sinfonia di Mozart o di confrontarsi con alcune forme contrappuntistiche. Intendiamoci: non credo che nessuno di loro diventerà un musicista – non grazie al mio, corso, quanto meno; ma mi sembra che tutti i ragazzi, che si sono presentati alla prima lezione senza alcuna esperienza (la maggior parte di loro non aveva mai nemmeno ascoltato un concerto con musica classica), siano diventati buoni ascoltatori. E di certo, se prima la musica arrivava alle loro orecchie solo in modo sensoriale, emotivo, adesso la seguono sapendo che si tratta di un discorso, del dispiegarsi di un linguaggio.

La musica classica, a fronte di una forte difficoltà di composizione, riesce ad essere universale, istintiva. Nel libro citi giustamente le colonne sonore dei kolossal di Hollywood, il potere di opere senza tempo come la Quinta sinfonia di Beethoven o del Bolero di Ravel di incistarsi nella nostra mente e non andarsene mai più. Torniamo quindi all’interrogativo che mi ponevo all’inizio di quest’intervista: come si trasformano la difficoltà e la ricercatezza in qualcosa di universale?

Purtroppo non ne ho idea. E direi che non ce l’ha nessuno. So però una cosa: che la musica classica nasce in modo sorprendente – il che è esattamente l’opposto di quanto accade con un brano pop o una colonna sonora, che hanno la funzione di rassicurare, di confermare.  So che, pur essendo un linguaggio con una grammatica e una sintassi estremamente logiche, la musica classica deve stupire il compositore nel momento in cui viene al mondo, in modo che il suo stupore possa poi propagarsi, moltiplicarsi. Perché per sua natura la musica classica è fatta di relazioni fragili, che si creano e si rompono in continuazione, tanto che gli interpreti, suonando una nota un po’ più forte, o più legata, o più accentata, o più dolce, o più secca, o più rapida, possono cambiare la natura, il senso del discorso; ed è nel giostrarsi tra questi legami sempre provvisori, nell’inventare in ogni istante soluzioni nuove, stupefacenti, che agiscono i compositori. Come poi tutto questo diventi universale, è un mistero. E anche un paradosso. Perché esistono tante Quinte sinfonie di Beethoven quante sono le sue diverse interpretazioni, e dunque noi ogni volta ne conosciamo una, che ci sembra definitiva, universale, appunto, ma è magari molto diversa dalle sue altre materializzazioni – ho appena pubblicato un piccolo ebook sull’interpretazione, dove esploro il fenomeno: Le partiture sono ricette di cucina. Venti dischi di musica classica che stanno riscrivendo la storia della musica (Ponte alle Grazie). Ci si fissa nella mente, dunque, un oggetto curioso, un misto tra la partitura (che la maggior parte di noi non leggerà mai nella vita) e una sua interpretazione… Come sempre, le cose sono più complicate di come sembrano.

Spotify ci dà la possibilità di usufruire in maniera rapida ed economica alla musica classica, io stesso ho ascoltato in questo modo tutti i brani citati nel libro. Al tempo stesso, mescola esperienze musicali di epoche diverse in un grande calderone senza contestualizzare, senza darci riferimenti. Pensi che Spotify abbia cambiato il profilo dell’ascoltatore medio di musica classica?

Se vado ad ascoltare musica classica su Spotify, sono mosso da due possibili motivazioni: 1) so che cosa sto cercando, e dunque l’assenza di riferimenti precisi (che invece un cd ci offre) non mi disturba troppo; 2) sto andando a zonzo e mi imbatto in questo e in quello, e potermi eventualmente annotare un autore, un titolo, un interprete, per poi cercare riferimenti e capire meglio, è comunque un ottima cosa. Per l’ascoltatore della pratica 1) direi che non cambia molto; per chi scopre la musica classica seguendo il sistema 2) in effetti potrebbero prospettarsi scoperte, ed emozioni, altrimenti difficili da incrociare.

Come stanno affrontando le orchestre e in generale l’industria musicale la fase 2 e il suo lento ritorno alla normalità?

Con fatica. È tutto difficilissimo. E se si pensa che ancora stavamo scontando gli effetti della crisi economica, c’è poco da stare allegri. Quello che tiene su, per chi lavora nell’ambito della musica classica, è la consapevolezza di dover mantenere accesa una fiammella, di dover fare ascoltare ai nostri fratelli, e ai nostri figli, una cosa preziosa, che l’umanità preserva da un buon migliaio di anni – conserviamo e suoniamo e cantiamo musica scritta dal Medio Evo in poi – e continua ad arricchire, con le partiture che si scrivono (fino a mezz’ora fa stavo lavorando a un pezzo per violoncello…) . Più ci accorgeremo, collettivamente, che la nostra identità, il nostro essere uomini e donne del 2020, si specchia anche in Mozart, Puccini o Stravinskij, e meno soffriremo, tutti.

Un’ultima domanda personale: c’è un brano o un compositore a cui sei affettivamente legato? Ce lo vuoi raccontare?

Senti, è già stato doloroso buttar giù dalla torre tutti i brani che non potevano entrare nel mio 100 brani di musica classica da ascoltare una volta nella vita (BUR Rizzoli). Sii gentile, non mi chiedere di più!

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