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Vagine Naziste

di Jolanda di Virgilio
illustrazione di Stefano Rossi

Apro la porta.
“Ma cazzo!”
La richiudo immediatamente.
“Scusa.”
Sono bastati tre secondi per guardarla.
Era nuda, la gamba sollevata e piegata sulla scrivania per spalmarsi meglio la crema.
Non la vedevo nuda da quanto, due anni?
Si nasconde perché si è tatuata Ganesha sulla schiena quando ne aveva quattordici. Me ne sono accorta subito: sono sua madre, la guardo mia figlia.
Non le ho detto niente per non farmi odiare e perché, di fatto, non mi interessa granché. Facesse con il suo corpo quello che vuole, questo penso, ognuno deve usare il suo corpo come ne ha voglia. Come meglio crede. Il corpo è l’unica cosa che ci appartiene veramente, nemmeno i pensieri ci appartengono quanto il corpo. E allora perché, perché sono così sconvolta, perché mi disturba così tanto, perché mi mette soggezione che mia figlia di diciassette anni non abbia nemmeno un pelo sulla fica?

La raggiungono Michela e Rebecca. Si chiudono tutte e tre in camera. A studiare. Chissà se anche Michela e Rebecca… mi sembra di sì: credo che si intuisca dalla faccia, se una ha la vagina completamente depilata. Ripenso alle mie amiche. Quella sì, quella no, quella… no. In realtà non so quante persone della mia età portino una depilazione totale. Ceretta sì, sgambata anche, ma togliersi tutto, togliersi tutto e sembrare, sembrare una bambina, dio, no. Togliersi tutto no. Tutto no.

“Solito?”
“In realtà pensavo che potremmo provare…”
“Tutto?”
“No, tutto no. Però ecco magari ci spingiamo oltre le colonne d’Ercole, guarda direi, fin qui.”
“Va bene, Claudia.”
Mi spolvera un po’ di talco sull’inguine, mi accarezza i peli per capire in che direzione crescono. Inzuppa lo stecco di legno in un piccolo calderone di cera, lo rigira come se fosse una forchettata di spaghetti e ci soffia sopra.
“Ecco qua, facciamo strappi piccoli così non soffri…”
Annuisco e fisso il soffitto. Il braccio destro piegato sotto la nuca.
“Senti, sai cosa mi chiedevo?”
“Cosa?”
“Le ragazze… le ragazze di oggi, come la portano?”
“La fica dici?”
“Mh.”
“Si tolgono tutto.”
“Tutte?”
“Tutte, tutto. Anche Miriam si fa togliere tutto.”
“Sì, lo so…”, sospiro dolorante.
“Eh. Che vuoi farci? È la moda. Tiri su la gamba?”
“E perché?”
“Che ne so perché. Adesso è così. C’è questo culto della vagina depilata, soprattutto da parte degli uomini, credo. Forse troppi porno. Comunque per me è un bene: mi faccio pagare il doppio per una totale.”
Si ferma.
“Vado avanti?”
Mi sollevo a fatica con un addominale e mi guardo in mezzo alle gambe.
“Dai, un po’ di più, magari qui sopra…”
“Sicura?”
Perché non dovrei essere sicura?
“Certo.”

“Abbiamo finito. Ti ho lasciato giusto un po’ di peluria. Tante donne della tua età la portano così.”
E tu, le vorrei chiedere, tu come la porti? Ma sento che è una domanda proibita e non ho il coraggio di pronunciarla. Mi massaggia con un goccio d’olio di argan e si tampona le mani sul camice. Esce.
Mi tolgo lo slip di carta e lo accartoccio. Rimango per un secondo immobile, davanti allo specchio ed eccola lì, la mia cosa: semi nuda, piccola, non la riconosco neanche. Mi ha lasciato solo un rettangolino di peli scuri proprio prima che inizino le labbra. Ed è strano, è veramente strano, ma è anche così chiaro, che adesso, in questo modo, con quest’unico ciuffo rettangolare e definito, la mia vagina assomigli terribilmente a Hitler.

Mi siedo al chioschetto di Piazza Oberdan e ordino una cedrata. Devo spettare le 13.30 per andare a prendere Miriam a scuola. Mi sento molto più bella, più sicura, più giusta. Osservo le donne della mia età, donne di 57 anni che passeggiano, e lo vedo, adesso lo vedo il mondo sotterraneo, silenzioso, di vagine che ci stanno provando ad allinearsi, a non essere dimenticate, a non scomparire dietro al groviglio nero del tempo. Vagine naziste che sembrano Hitler ma che sono in realtà la resistenza, vagine che si ribellano, che non si piegano al culto del pelo, della giovinezza.
Quando arriviamo a casa mi chiudo subito in bagno. Sono emozionata. Afferro la maglietta e la fermo sotto il mento, mentre tiro tutto giù fino alle caviglie, pantaloni e mutande. I capelli mi cascano davanti agli occhi, chiudendomi il volto come una conchiglia. Li sposto via, frustando il collo di qua e di là. La guardo dall’alto e sorrido. Il respiro è leggermente affannato, anche se non ho corso. È un po’ indolenzita e arrossata. La pelle molle e granulosa, profumata.
Cerco tra le cose di Miriam uno specchietto. Ne compra a dozzine di questi piccoli oggetti da borsa. È ossessionata, vuole essere sempre perfetta. Ne trovo uno abbandonato in fondo al cassetto dei trucchi. È vecchio, di plexiglas, fucsia, scheggiato sulla parte superiore.
Lo apro e lo posiziono in mezzo alle gambe, e intano tengo l’estremità della maglietta sempre ben stretta sotto il mento. Ho la bocca semi aperta, un’espressione ebete, mentre cerco di decifrare quel territorio, riflesso in un pezzo di vetro opaco. Non si vede niente. Ho bisogno di mettermi comoda: provo il bordo della vasca e subito dopo mi accascio sulla tavoletta del water.
“Mamma, hai fatto?”
Non rispondo.
Non so perché ma sto pensando ad Anna, la mia ginecologa. A quanto la odio quando mi ficca lo speculum nella vagina e mi chiede scettica: “Da quanto tempo è che non hai rapporti?”.
Usa la parola “rapporti” per essere delicata, ma io preferirei che dicesse “scopare”, come tutte le persone normali. O “trombare”, come dice Miriam con le amiche, o “fottere” come diceva mio marito. O “chiavare”, “schiacciare”, “ficcare”, qualsiasi altra cosa, insomma, qualsiasi altra cosa che non sia “rapporti”.
Sostituisco lo specchietto con la fotocamera interna del mio iPhone. La roteo piano piano per guardare, per guardarmi, per guardare tutto quello che in 57 anni, onestamente, non avevo mai visto. Per sbaglio il pollice sfiora lo schermo. Scatto una foto alla mia vagina e faccio subito per cancellarla. Ma poi ci ripenso. La ingrandisco e mi accarezzo per verificare se tutto coincide: immagine e realtà. La fisso. Che bella che è. Questa foto penso che me la tengo.
“Mamma, hai fatto?”
C’è mia figlia dietro la porta che mi chiede di liberare il bagno, spazientita. Le dico “un attimo”, spazientita pure io, e per un secondo realizzo che ci siamo scambiate i ruoli. E sono felice di essere io, per una vota, quella dall’altra parte della porta.

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