Il mare verticale – Gli attacchi di panico raccontati da Brian Freschi e Ilaria Urbinati

Ci sono cose di cui si fa ancora fatica a parlare, e che quindi finiscono per essere nascoste dietro a sorrisi a denti stretti, di circostanza, o sguardi imbarazzati. Perché scomode, perché generano spesso vergogna, perché non si comprendono, oppure perché disturbano non tanto noi stessi, quanto gli altri, e allora si pensa che, forse, se si fa finta che non esistano, queste cose scompariranno da sole.

Non è ciò che accade nell’intensa opera sceneggiata da Brian Freschi e illustrata da Ilaria Urbinati, uscita a inizio luglio per BAO PublishingIl mare verticale prende una di queste, tante cose – la DAP, il Disturbo da Attacchi di Panico – e non la nasconde. Ne parla senza timori o vergogna, trova parole, immagini, metafore giuste, precise, evocative per raccontare qualcosa che è estremamente difficile da spiegare a chi non l’ha mai vissuto sulla propria pelle. 

Lo fa attraverso India, un personaggio umanamente imperfetto e, per questo, meraviglioso. India ha ventinove anni, abita in un piccolo borgo di mare, ha una casa sua, un compagno che ama, e soprattutto adora il suo lavoro, anche se ormai non lo dice più nessuno. Insegna italiano in una classe elementare, è giovane e brava, e il futuro sembra essere già tracciato, così luminoso e liscio come la linea del mare all’orizzonte. Ma per India il mare non orizzontale ma verticale: a volte, capita all’improvviso che questo salga, che la colpisca e la riempia da dentro, facendole perdere il controllo. L’aria, così scontata, inizia a mancare, e gli occhi si riempiono di ombre. 

Vorrei più silenzio nella mia vita. Più momenti fermi, ma di costruzione. Più momenti di niente pieno. Sono stanca di sentire silenzio solo quando provo dolore.

Come si racconta – efficacemente e senza retorica – un attacco di panico? Ogni attacco è diverso, personale, ed è una di quelle cose che si fa fatica a spiegare a parole. Allora forse, le parole non servono, e più che raccontarlo, lo si può disegnare: con delle tavole mute, con questo mare che a volte si alza improvviso e fa da muro, riempiendo la pagina di blu, si mette in scena il terrore, la confusione, il nero, la sensazione di respirare senza però incamerare davvero ossigeno. Quella di stare quasi per morire. Per India c’è l’acqua e il buio, e le sembra di affogare.

Io… provo il mare. Mi scava nelle vene fino a…
Riempirmi completamente… Impedendomi di respirare, o di vedere.
È assurdo, lo so. Ma ogni volta che ho un attacco il mare c’è… in qualche modo.
Comunque è diverso per tutti. Ognuno ha un suo personalissimo assassino.

India ha un disturbo, ma non lo nasconde come gli altri si aspettano che faccia. Come pretendano che faccia, perché c’è sempre questa tendenza delle altre persone di sapere cos’è giusto e cosa no. Anzi, India fa qualcosa di più, e qui la narrazione si apre a un’altra, in una storia dentro alla storia. Perché la maestra inizia a raccontare alla classe di Hava, una piccola donna che, camminando senza mai fermarsi, finisce in una terra buia: non c’è più nessuna luce, e queste tenebre sono a causa di un mostro oscuro, un divoratore di tutto ciò che è chiaro e luminoso. Kalabibi. E anche se vorrebbe nascondersi, anche se non si sente una guerriera, Hava non ha scelta: è toccato a lei, e soltanto lei – sola – potrà affrontarlo.

A volte può succedere, bambini… Gli eroi nelle storie non vincono sempre. Però possono continuare a provare senza mai arrendersi. Forse è questo il loro vero potere.

India non si nasconde, quindi, ma cercando un modo per convivere con gli attacchi si mostra vulnerabile. In Hava e nelle sue avventure nella terra del buio, si apre ai suoi alunni, parla di quei mostri che a volte abitano dentro di noi, del dolore, della sconfitta, della responsabilità, del non arrendersi, ma anche dell’accettare che, a volte, certi mostri non se ne andranno mai. Racconta e, raccontando, affronta il suo Kalabibi. Questo, però, non piace ai genitori dei bambini, che cominciano ad isolarla, a farle credere di essere un mostro, perché lei è responsabile dei loro figli. Pazza. Esagerata. Invalida. Ma chi è il vero mostro, chi ha un disturbo e ne parla o chi lo demonizza? Cosa succede quando il disturbo “disturba” più gli altri, invece di sé stessi?

Penso che Brian e Ilaria abbiano creato una graphic novel complessa, intima e profonda quanto il mare di cui raccontano, che tutti dovrebbero leggere. Come India, non hanno avuto paura di immergersi, e hanno affrontano con grande delicatezza – ma non indorando la pillola – tantissimi temi, dal potere delle storie alla sessualità (sublime la tavola sull’autoerotismo), dal significato dell’insegnamento alla complessità delle relazioni, dagli effetti che certi disturbi hanno sulla nostra vita e su chi ci circonda alla guarigione intesa come forma di consapevolezza. E infatti India capisce che, forse, non è giusto provare a cancellare una parte di sé, per quanto dolorosa e oscura, e che, come Hava, si può vincere anche senza uccidere il mostro. Si può andare avanti, e provare a vivere la propria vita: ci saranno momenti in cui tutto sembrerà facile, altri in cui Kalabibi alzerà di nuovo la testa dal buco in cui si era nascosto, ma ciò che conta è esserne consapevoli. Stare nel momento, non nascondendosi.

India, alla fine, potrà tuffarsi in mare senza avere paura di annegare.

Per le immagini si ringrazia l’Ufficio Stampa di BAO Publishing.

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