Il ritorno dell’usa e getta ai tempi della pandemia – Il traguardo “zero plastica” è sempre più lontano

Avete mai sentito parlare delle isole di plastica? Si tratta di masse di tonnellate di rifiuti di dimensioni molto estese che si trovano nei nostri mari e negli oceani. A oggi se ne contano circa sette nel mondo e la più grande, conosciuta come Great Pacific Garbage Path, si trova nell’oceano Pacifico settentrionale, costituita da centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti plastici, soprattutto di microplastiche. Mentre le conseguenze di questi vortici di rifiuti sugli ecosistemi marini e la biodiversità sono ancora poco conosciute e nessun paese si assume la responsabilità di affrontare questo problema, scienziati e non solo concordano sul fatto che limitare o addirittura eliminare la produzione e l’uso di materiale plastico di tipo usa e getta potrebbe essere l’unica soluzione per eliminare lentamente queste isole tossiche. Negli anni sono stati fatti molti passi avanti per incentivare l’uso di materiale biodegradabile sia a livello legislativo sia a livello comunicativo: il messaggio che la plastica e lo stile di vita usa e getta siano dannosi per noi e per l’ambiente in cui viviamo sembra essere arrivato forte e chiaro. Tuttavia, sono ancora troppe le occasioni in cui il ricorso all’usa e getta prevale su quelli che rimangono, quindi, solo buoni propositi.

Lo scoppio della pandemia, poi, non ha fatto altro che aggravare una situazione già critica. Pensiamo ad esempio ai dispositivi di protezione individuale (dpi) e ai prodotti utilizzati per la sanificazione delle superfici e degli ambienti. Mascherine, guanti, gel disinfettanti e detergenti sono ormai parte del nostro nuovo quotidiano ma se guardiamo alle quantità le cifre sono da brivido. Si calcola, ad esempio, che solo in Italia si consumeranno otto miliardi di mascherine usa e getta entro la fine di quest’anno. Ma pensiamo anche ai guanti in lattice, il cui utilizzo è stato a torto ritenuto necessario anche per la popolazione e non solo, com’è giusto che sia, per lavoratori e operatori sanitari: le stime parlano di circa cinquecento milioni di guanti monouso utilizzati ogni mese solo nel nostro paese.

A convertirsi al monouso, inoltre, è stato anche il settore del turismo che sta lentamente provando a ripartire dopo il duro colpo subito a causa del lockdown e delle restrizioni alla mobilità. Dopo una serie di importanti conquiste raggiunte nella riduzione di rifiuti plastici, stoviglie monouso e cibi confezionati sono tornati protagonisti della tanto agognata ripresa.

L’impiego di disinfettanti e prodotti chimici per la pulizia di superfici domestiche, strade e mezzi pubblici, inoltre, ha visto una vera e propria impennata a fronte di vantaggi sanitari ritenuti minimi. Insomma, la paura dei contagi sembra superare di gran lunga quella per l’ambiente inquinato che però, a sua volta, ha serie ricadute sulla salute umana e su quella della biodiversità. Così “la pandemia rischia di creare anche un danno ambientale” titola la traduzione italiana di Federico Ferrone su Internazionale dell’articolo di Ann Gross per il Financial Times.

La preoccupazione, tuttavia, deriva non solo dall’aumento dell’uso di oggetti non biodegradabili, a volte perfino tossici, quanto soprattutto dal loro errato smaltimento. Molti dpi, infatti, vengono continuamente abbandonati per strada e in generale all’aperto così da finire nei corsi d’acque e sulle spiagge e, quindi, in mare. Anche qualora questi venissero gettati nel cestino, la maggior parte dei dpi non è riciclabile dato che si tratta di oggetti contenenti diversi tipi di plastiche e non vi è, al momento, un sistema di riciclo in grado di gestirne il trattamento. Per questo l’unica strada percorribile il più delle volte è il loro incenerimento con la conseguente emissione di sostanze tossiche e inquinanti. Sempre Ann Gross, tuttavia, citando Jodi Sherman, professore di anestesiologia ed epidemiologia di Yale, sottolinea come fino a qualche decennio fa la maggioranza dei dpi fosse riutilizzabile e che è stato “solo a partire dagli anni ottanta che l’industria dei dispositivi medici ha intuito il potenziale dei prodotti monouso usa e getta” facenti parte di un modello capitalista di produzione che privilegia il ciclo lineare – e non circolare – di produzione, acquisto, utilizzo e scarto.

Ovviamente sono molte le associazioni e i cittadini che si rendono conto della bomba a orologeria innescata da questo aumento indiscriminato di plastica e che tentano, quindi, di porvi rimedio. La soluzione, infatti, sta non solo nel limitare il consumo di prodotti usa e getta e nello smaltirli correttamente, ma anche nell’utilizzarli il meno possibile privilegiando l’acquisto – o l’autoproduzione – di dpi più ecologici, lavabili e con un ciclo di vita più lungo. Le plastiche monouso, inoltre, dovrebbero essere definitivamente bandite dal mercato grazie all’adozione di politiche più incisive che però, col covid-19 sono state posticipate a data da destinarsi. I dubbi su quando le direttive anti-plastica saranno adottate rimangono molti e le perplessità circa la loro efficacia aumentano man mano che la decisione viene rinviata. Andando avanti con gli attuali ritmi di consumo, il rischio di ritrovare in mare più guanti monouso che vita è sempre più concreto. Solo la comprensione delle innumerevoli connessioni tra crisi sanitaria, modello economico e distruzione ambientale potrà finalmente consentire quell’ulteriore passo in avanti necessario a invertire la rotta verso la costituzione di una società ecologica.

PhCredit:  ww.forbes.com , www.lavoripubblici.it

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