Yakamoz Ramona Lacorte racconto

Yakamoz

di Ramona Lacorte

Nella stradina del canile dove mi hanno spedita in affidamento ai servizi sociali, c’è un muro di mattoni rossi con su scritto una poesia:

Riaffiorano come scogli
i vecchi ricordi
ed è subito alta marea.
M.E.P. G.112.

Vedo due occhi verdi.

Non respiro più.

Affogo.

Ogni volta che la rileggo sprofondo in uno stato di alienazione.

Mi capita spesso ultimamente.

Mi infastidiscono le voci stridule, chi non coglie il sarcasmo, gli uomini che ti avvicinano per vedere se “ci esce qualcosa”, le donne che si avvicinano agli uomini che magari “ne esce qualcosa”. Le parate, gli arcobaleni, i matrimoni, i bambini i cui nomi iniziano per A.

Continuo a perdere tutto.

Le chiavi di casa, il cellulare, il ritmo, le sedute dall’analista, le persone.

Non perdo mai la pazienza. Quella non l’ho mai avuta. 

Quando sto per esplodere, prima di prendere gli ansiolitici, di urlare o far saltare qualche testa, mi alieno.

Come di fronte alla scritta sul muro di mattoni rossi.

Lo psicoterapeuta dice che è causato da un trauma subito nell’infanzia.

Ma io della mia infanzia non ricordo nulla, quindi lo assecondo, così finiamo prima e posso tornare a casa. È qualcosa che ha a che fare con la dissociazione. Mi dissocio. Mi ha detto di pensare a qualcosa di bello. Che mi rende felice.
Mi chiede a cosa sto pensando… rispondo: “Al tramonto a Fregene”.
Mi concentro sulla sensazione delle tue dita che tamburellano sulla mia coscia sinistra, sfatta e in dormiveglia.
Poi si fermano e la mano si apre, palmo contro pelle, senza malizia.

“Così non voli via”.

Mi è stato vietato di associarti a “qualcosa di bello”, allora ho iniziato a barare.
Che poi non è un vero e proprio inganno, perché sullo sfondo il tramonto lo vedo e sto a Fregene per davvero.
Spesso ho pensato ai nostri figli.

“Ma tu e la mamma come vi siete conosciute? In fila al SERT, Abigail, lo so non è il massimo del romanticismo, ma puoi essere orgogliosa delle tue mamme… all’epoca la gente si incontrava su Tinder.”

“Abigail? Se non fosse che la compro io la roba, ti chiederei di che cazzo ti fai per voler chiamare una bambina Abigail.”

“Se nasce maschio invece lo chiamiamo come tuo padre… Armando.”

“Si, in qualità di coppia LGBT abbiamo il dovere di rispettare le tradizioni imposte dal patriarcato. Armando, ma che cazzo dici? Fa più schifo di Abigail!”

“Volevo tagliarmi i capelli…sai uno di quei tagli alla moda rasati dietro e più lunghi sul davanti.”

“Ma non dire stronzate” hai bofonchiato in una nuvola di fumo dal tuo lato del letto, le gambe poggiate al muro verso l’alto, e i piedi minuscoli di fianco a un quadro della Vergine Maria, lasciato lì dai vecchi inquilini di quel monolocale così fatiscente che anche io e te avevamo iniziato a definirlo “vintage” per dargli e darci una dignità.

“No, no, dico seriamente!”

“Ma dove si è mai vista una femmina con i capelli corti…. guarda la Bellucci, Barbie Raperonzolo, mia sorella, Maria…”

“Maria chi?”

“Lei! La Madonna”

Poi un giorno cadde a terra un piatto, e poi un altro e poi un altro ancora.

Comprai quelli di plastica.

“Mi fai schifo.”

“Quando ti sei innamorata di me hai impiegato due mesi a trovarmi visto che eri così allucinata da non ricordarti la mia faccia. Sono sempre convinta che tu abbia sbagliato ragazza.”

“Questa terapia ha minato il nostro rapporto di coppia, dopo ogni seduta mi aspetto che  rientri in casa dicendomi che ti sei innamorata di un uomo.”

Non ci furono mai figli, non ci furono matrimoni su un’isola vulcanica officiati da una drag queen, solo per fare incazzare tua zia.

Ci fu solo una brutta giornata, finita con delle mani attorno ad un collo, afferrate ai capelli che non avevi voluto tagliassi. Ricordo il coltello da pane, introvabile quando c’era da fare le bruschette, quello fucsia del set “buono”, comprato a Porta Portese. Non lo trovavo mai, non era mai stato così in bella vista.

Le urla dei vicini che bussano violente contro la porta.

Occhi verdi.

Non respiro più.

Affogo.

Alla fine del 2007 una rivista tedesca ha scritto che la parola più bella del mondo è Yakamoz.

Riflesso di luna sull’acqua.

Anche leggendo quella parola mi sono alienata.

Luce nell’oscurità.

Mi è tornato in mente il finale del tuo libro preferito:

“A differenza che nei racconti, la vita vera, quando è passata, si sporge non sulla chiarezza ma sull’oscurità”.

Ho pensato: “Ora che si è fatta vedere così nitidamente, devo rassegnarmi a non rivederla mai più”.

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