Handicap è una parola inglese e deriva dall’espressione hand-in-cap, cioè ‘mano nel cappello’. Era il nome di un gioco d’azzardo: due persone barattavano (cioè si scambiavano) degli oggetti, e quella che voleva il più caro doveva aggiungere dei soldi all’oggetto meno caro in modo che lo scambio potesse essere alla pari.
Scatoline è una collana a cura di Vera Gheno, edita da effequ, che raccoglie diversi piccoli saggi destinati a un pubblico di menti giovanissime, giovani e diversamente giovani (dai cinque anni in su).
Ogni libro è una parola raccontata. Io ho iniziato con una parola che mi sta veramente a cuore: handicap, raccontata da Iacopo Melio e illustrata da Elisa 2B.
Dare una definizione di handicap è, almeno per me, molto difficile. Se sfoglio il vocabolario leggo:
1. a. Nel linguaggio sport competizione nella quale i valori dei singoli partecipanti (uomini, cavalli, cani) vengono, sia pure parzialmente, pareggiati mediante opportune disposizioni di gara (abbuoni di distanza o aumento di peso), o di punteggio, allo scopo di consentire qualche probabilità di aggiudicarsi un premio anche ai concorrenti che sono manifestamente inferiori.
b. Il vantaggio stesso che viene concesso, o lo svantaggio che viene imposto, ai partecipanti in tali gare.
2. In senso fig., fatto o situazione che mette una persona in condizione d’inferiorità, e anche la condizione stessa d’inferiorità.
Insomma, ognuna di queste definizioni mi riporta a una dimensione di scompenso, di mancanza, di deficit. Eppure, negli ultimi anni ho avuto di comprendere che a questa parola meritano di essere associate tante definizioni completamente diverse, che nulla hanno a che vedere con il senso di mancanza o svantaggio. La definizione che darei io è piuttosto quella di ricchezza o peculiarità.
Questa difficoltà nel definire, che sembra quasi paradossale in un mondo che etichetta tutto e tuttә, si verifica perché le parole nascono e sono libere, ma l’uso che ne facciamo le chiude dentro strutture rigide, da cui a volte non è facile svincolarle.
La collana Scatoline prova, e secondo me riesce molto bene, a fare proprio questo: liberare le parole attraverso il racconto, dando a chi le legge e decide di usarle, la responsabilità di farne un buon uso.
Ma come si fa a raccontare una parola?
Siamo sempre statә abituatә a usare le parole per costruire delle storie. Grazie a questi saggi comprendiamo che, invece, prima ancora di essere strumenti, le parole sono veri e propri contenitori al cui interno si nascondo storie profonde, che possono nascere in tempi lontani o vicinissimi, ma che sono sempre il risultato di scelte e di viaggi nel tempo e nelle culture.
Ecco che per raccontare una parola basta usare uno schema che useremmo per narrare una qualsiasi altra storia: si parte da quello che “(c’) era una volta”, se ne descrivono le strane avventure, di bocca in bocca, di penna in penna e di luogo in luogo, fino alla fine, quando la stessa parola assume per ognugnә un proprio personalissimo significato.