La storia del topo cattivo – Un fumetto di formazione tra abusi e consapevolezza di sé

Pubblicato più di trent’anni fa La storia del topo cattivo, graphic novel di Bryan Talbot, è una storia che ancora oggi ha molto da dire. È una lettura molto dolorosa, che ti scava dentro e che ti fa riflettere, che ti fa entrare in empatia con Helen, la protagonista adolescente di questo racconto delicato e d’impatto. Oggi Tunué riporta in libreria il fumetto – vincitore, tra le altre cose, del premio Will Eisner 1996 – di cui Talbot è più orgoglioso, in un’edizione elegante e prestigiosa, con la prefazione di Neil Gaiman, la postfazione di Jennifer Guerra e la traduzione di Omar Martini.

Dalla città alla campagna

La storia si apre in media res, Helen, la protagonista, si trova in una delle stazioni della metropolitana di Londra, seduta per terra con un cartello che recita “Homeless + Hungry Please Help”. L’unica sua compagnia è una topina che ha salvato nel laboratorio scolastico tempo prima e per la quale fa inorridire le persone che si avvicinano per darle una moneta.

Helen è scappata di casa per sfuggire agli abusi del padre. Cresciuta con una madre problematica, alcolista e noncurante della figlia e con un padre violento che si approfittava di lei, Helen è una ragazza sola, che ha sempre trovato conforto soltanto nei libri illustrati di Beatrix Potter, di cui copia e ricopia i disegni. Ha lasciato la sua casa portando con sé la topina, i libriccini e un album da disegno e vive per strada, non sapendo bene cosa fare. Ha paura del contatto fisico perché le ricorda le violenze del padre e sa che il mondo là fuori può essere cattivo tanto quanto l’ambiente familiare, eppure ha visto nella fuga una via d’uscita, anche se questo significa vivere per strada in una scatola di cartone.

Dopo essere sfuggita – grazie a un gruppo di ragazzi – a un uomo ricco che voleva approfittarsi di lei, per strada, di notte, Helen decide di raggiungere Ben e gli altri ragazzi che l’hanno salvata in una casa abbandonata dove tutti abitano abusivamente, ma neanche in quella casa si sente al sicuro e così sceglie di seguire le tracce della sua beniamina, iniziando un viaggio che la porterà nel Lake District, dove Beatrix Potter aveva vissuto, per riprendere in mano la sua vita e affrontare il dolore che per anni ha lasciato crescere dentro di sé. Helen si rivede molto in Helen Beatrix Potter e non solo per via del primo nome e cognome identico, ma anche per la passione condivisa nei confronti della natura e per quel desiderio d’indipendenza e di “farsi da sé” che ha caratterizzato la vita di Beatrix Potter.

Grazie a diversi autostop, Helen riesce a raggiungere il nord dell’Inghilterra e viene aiutata (e pseudo-adottata) dai McGregor, una coppia senza figli che gestisce una locanda, dove Helen comincia a lavorare. Il signore e la signora McGregor sono i primi adulti positivi in questo racconto, due persone comprensive che danno volentieri una mano a Helen e non le mettono pressione, anche se capiscono fin da subito che Helen ha vissuto l’inferno e sanno che ci vorrà del tempo prima che lei si confidi con loro.

È in mezzo alla natura che Helen ritrova un contatto con se stessa e intraprende un percorso di elaborazione e di consapevolezza di ciò che ha subito in passato. Per una ragazza che ha vissuto in città e che adesso si ritrova a passare le giornate immersa nei boschi e nelle alture, anche vedere un airone è qualcosa di strabiliante.

«Mi… Mi piace proprio questa zona. Quando ho deciso di venire qui non avevo compreso… Non avevo realmente mai pensato a come sarebbe stato…»

Una storia di formazione delicata ma incisiva

Dopo un po’ di mesi passati a lavorare alla locanda, Helen prende coraggio e decide di andare in una cittadina a valle per fare un giro, ben consapevole che ci sarà molta gente. Dopo aver visto le classiche “trappole per turisti” (ovvero negozi in cui si vendono gadget di Peter Coniglio, a proposito, sapevate che Beatrix Potter realizzò un pupazzo di Peter Rabbit e lo registrò al patent office, facendone il primo personaggio letterario protetto da licenza creativa?), Helen entra in una libreria e ne esce con titoli psicologici sull’auto-consapevolezza e su come sopravvivere a genitori tossici, per poter analizzare ciò che ha vissuto sulla sua pelle, cominciando un percorso di elaborazione del trauma che l’ha perseguitata negli anni. Una scena toccante è quella di quando rincontra i genitori e ha il coraggio di dire a suo padre tutto quello che non ha mai detto.

La storia del topo cattivo è un testo importante ed è ancora oggi utilizzato in molti centri di assistenza in tutto il mondo. «Gli adolescenti maltrattati spesso hanno difficoltà a parlare della propria situazione, ma riescono a discutere di quella di Helen, e questo li aiuta a trovare il modo per parlare di sé.»

Di grande aiuto è anche la consapevolezza che Talbot riporta alla fine della storia, scrivendo: «Ho prodotto il Topo cattivo usando la conoscenza di altre persone, la conoscenza raccolta parlando con i sopravvissuti agli abusi e leggendo libri sull’argomento. Nella storia, Helen attraversa le fasi del recupero che, secondo i libri di psicologia, i sopravvissuti devono attraversare per venire a patti con sé stessi e le loro esperienze. La differenza nella mia storia è che, per ragioni narrative, Helen le attraversa nel corso di diversi mesi mentre, nel mondo reale, ci vogliono diversi anni».

Inoltre, non bisogna dimenticare – come scrive Jennifer Guerra, giornalista e scrittrice che si occupa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+, nella postfazione – che a livello globale il 30% degli abusi sessuali sui bambini è commesso da un parente stretto (genitori, nonni, zii, fratelli) e il 60% da una persona conosciuta dalla vittima ma che non è un parente, come un amico di famiglia, un insegnante o un vicino di casa (National Sex Offender Public Website, Raising Awareness About Sexual Abuse, Facts and Statistics, 2014, in «Nsopw.Gov»). È un dato che provoca sgomento, ma che, purtroppo, sentiamo fin troppo spesso leggendo i giornali o ascoltando le notizie in tv.

La storia del topo cattivo, a partire dal titolo, è un fumetto di formazione doloroso ma anche catartico. Fin dal principio Helen si sente un topo cattivo, una bestiola da cui tutti si vogliono tenere alla larga, ma grazie a se stessa e all’aiuto di persone fidate, comprenderà che lei non è la colpevole, bensì la vittima.
Anche graficamente la storia ha molto da dire. Il tratto di Talbot è incisivo, marcato, e i colori utilizzati cambiano in base al percorso fatto da Helen: nelle tavole ambientate in città i colori sono cupi, scuri, ma cambiano quando la protagonista giunge in aperta campagna, dove la palette scelta è più calda e confortevole.

Non è di certo un caso che il fumetto, oltre ad avvalersi del prestigioso premio Eisner, abbia vinto l’UK Comic Book Award for Best New Publication e il Don Thompson Award for Best Limited Series. I parallelismi con la vita e lo straordinario percorso di emancipazione di Beatrix Potter rendono la storia ancora più interessante, e sicuramente, il suo ricordo e la sua persona, spirito guida per Helen, alleggeriscono le profonde e difficili tematiche trattate. È di certo doveroso dire un sentito grazie a Tunué per aver riportato tra gli scaffali delle librerie questa storia intensa e piena di spunti.

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