Anna Giurickovic Dato e il suo grande me

Anna Giurickovic Dato è nata a Catania nel 1989, ma vive tra Roma e Parigi. È avvocato, ha un dottorato in diritto pubblico, fa la ricercatrice ma scrive anche narrativa, sceneggiature e cartoni animati (per Rai Yoyo il cartone animato Giù dal nido). Il suo romanzo d’esordio, La figlia femmina (Fazi Editore, 2017), è arrivato non solo ad essere candidato del Premio Strega 2017 ma anche finalista al Premio Brancati 2018 ed è stato tradotto all’estero in cinque paesi tra cui Francia, Germania e Spagna, ottenendo un largo successo di critica e pubblico.

Il grande me è il secondo romanzo della scrittrice edito da Fazi Editore che scrive dopo la perdita del padre. Qui la protagonista, Carla, si confronta proprio con suo padre, Simone, un padre importante purtroppo malato di un male terminale, una cosa chiamata cancro al pancreas. Tra ricordi ed episodi del tragico presente, flussi di coscienza di Carla, ci sono anche gli errori, un segreto nascosto per troppo tempo che viene dal passato e forti momenti di scoraggiamento, rabbia e pianto, perché nessuno è mai pronto a morire e nessuno è mai pronto a lasciare una persona che si ama.

«Così, mentre cammina, io lo rivedo come nei suoi racconti: è lui che più cresce più ritorna bambino, le spalle si stringono, il viso si riempie di ingenuità, il tremito delle braccia non è stanchezza, ma terrore, e lui che è padre oggi vorrebbe essere figlio, vorrebbe davanti a sé una madre e tirare freccette sui libri, sul muro, sugli infermieri che non lo ascoltano, sui medici che gli danno le cattive notizie, riempire la propria vita di fori in modo che il male che contiene se ne vada goccia a goccia e, così, sia minore la paura».

A volte le figure di padre si costruiscono, si inventano, poi si smontano e si rassembrano. Diventano per noi miti, eroi, poi quando ci si sente adulti i padri iniziano a diventare ingombranti come mai lo sono stati prima, e ci si inventa di odiarli per il solo tempo che ci è necessario per differenziarci, ancora poi, compiuto il processo di individualizzazione senza il quale non potremmo sentirci unici, diventa possibile allentare la presa e tornare ad ammirare coloro cui assomigliamo più di quanto vorremmo ammettere e meno di quanto avremmo desiderato. Questa è una verità comune a tutti gli esseri umani perché siamo tutti figli. È difficile essere genitori ma anche figli, perché il più delle volte siamo giudici severi e non contempliamo il fatto che i nostri padri possano commettere degli errori, che siano bisognosi del nostro perdono, perché sono esseri imperfetti.

«Sai, bimba, quando cantavo ero giovane e ancora pieno di occasioni, confondevo i sogni con il futuro, avrei potuto imboccare ogni strada, anche sbagliata, senza per questo dovermene pentire. Avevo davanti a me la possibilità degli errori, pensavo che un giorno, quando sarei stato pronto, avrei preso la via maestra e il mio destino si sarebbe compiuto proprio come avrebbe dovuto compiersi. Non credevo, allora, che l’esistenza fosse proprio quella che stavo vivendo nell’attesa che accadesse qualcos’altro. È così per tutti, non ci sono fallimenti in questa vita: ci sono l’idea del fallimento e l’idea di vita».

Ogni figlio statisticamente si confronta con il dolore della perdita di un genitore: rappresenta un addio impossibile ma inevitabile, un addio che nessun figlio è mai pronto a pronunciare. In quei momento c’è bisogno di un perdono, di una grazia. A volte, quando mi interrogo sul perdono, penso che non sia una questione umana, quando si è arrabbiati o tristi si vuole arrivare fino in fondo, provare l’emozione, a volte vendicarsi, a volte lasciare andare ma mai perdonare davvero. La vita è un percorso lungo, a volte doloroso, e va affrontato con grande coraggio. Quando succedono gli eventi tragici, questi non ti rendono più forte ma solo consapevole che puoi essere fragile. In questa fragilità comprendiamo che non tutte le domande hanno risposte e soluzioni. Soprattutto il tempo diventa a volte il peggior nemico, come in questo caso.

Anna Giurickovic Dato

Dato scrive in modo intimo, lucido, a tratti tenero, a tratti disperato e tragico, attraverso ricordi e confessioni. Il libro ha una componente autobiografica, si concentra su un grande me con il linguaggio dell’anima dilaniata da una grande perdita, dal dolore e dal suo attraversamento. Questo linguaggio sa essere spietato e destabilizzante, ma anche tenero. Vi è una riflessione profonda sulla figura del padre, capace di emozionare e far riflettere. Questo padre diventa quasi un Dio e l’unico credo per Carla, ma lo sta abbandonando in una triste e difficile recita perché vede ora solo una faccia fantasma. A volte viene fuori molta rabbia:

«⁣Vi auguro tutto il male che mio padre sorregge sulle spalle: che vi nutra tanto quanto vi nutrirà la mia carne. Non offritemi misericordia, non ne ho bisogno. Se non siete disposti, neanche un poco, a dividere con noi il supplizio, allora non bussate a questa porta: restate in disparte, siate coerenti con il terrore, che avete, di conoscere questo male, o la nostra vicinanza sarà la vostra maledizione. Cani, canaglie, tenetevi lontani finché resterete umani, solo gli dèi potranno entrare: siamo noi, siamo coloro che sanno resistere a quanto voi non riuscite neanche a sbirciare dallo spiraglio. Subumani, io non ce l’ho con il cancro, ma con voi che non lo avete!»

A pronunciare queste parole è proprio Carla, che parte da Roma per Milano dove vive il padre per assisterlo. La raggiungono anche i suoi fratelli Laura e Mario e c’è un unico palcoscenico di disperazione dove compaiono pensieri di giorni felici e malinconia dell’infanzia. Simone è un uomo di origini siciliane che ha vissuto a Roma e ora vive a Milano, è eccentrico e creativo, un animale da palcoscenico, il centro di ogni attenzione, il genio, lo zimbello, il provocatore. Le ha provate davvero tutte per essere famoso: così ci sono stati gli anni da musicista, poi la carriera politica, inaspettatamente anche la voglia di scoprire vestigia storiche dell’umanità. Per Carla e i suoi fratelli è essenzialmente il loro papà e, ora che sta morendo, si rendono conto di non conoscerlo poi così bene.
Il libro ha davvero toccato profondamente alcune corde della mia sensibilità fino a fare male o a ricordarmi come si soffre:

«⁣Si pensi, per esempio, alla gioia di sorprendere il proprio riflesso allo specchio mentre si piange: la sofferenza si congela in un moto di stupore e di autoanalisi, sino a che può capitare che io rida di me e con me e d’un tratto mi senta appagata del mio stesso pianto, entusiasta di poter finalmente guardare dove nasce e dove termina, se termina, rapita dal colore dei miei occhi che mi appare più brillante, deliziata dalle mie gote rosse, gaudente, con il viso sì gonfio, ma mai brutto, perché quando il dolore è stato tanto forte da tendere la pelle verso un’espansione, anche il sorriso che ne segue sembrerà più grande e, quindi, più lieto».

Quando è difficile portare tutte le aporie a spiegazioni razionali o annullare ogni sofferenza umana o attenuare il dolore insito nell’imprevedibile, Carla riscopre un padre, cerca di conoscerlo davvero forse per la prima volta recuperando del tempo perso, mentre questo grande me la sta lasciando giorno dopo giorno vivendo in una dislessia della morte. Consiglio di leggere il libro ma quando siete pronti ad affrontare ciò che vi unisce di più visceralmente e inconsciamente a vostro padre. Vi spingerà a chiedervi se sapete qual è la donna che ha amato di più nella sua vita, il suo colore preferito, la cosa più divertente che gli sia mai successa o il suo più grande rimpianto.

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