Immagine di Valerio Saganeiti

La libertà fredda gioiva

di Chiara D’Auria
Illustrazione di Valerio Saganeiti

Nina era nata e cresciuta in una piccola regione del Sud Italia che la stessa penisola ignora, la Basilicata.

Cielo limpido. Aria fresca. Luoghi ameni. Fiumi. Laghi. Mare cristallino. Montagne mozzafiato. Silenzio. Monnezza tossica da inalare. Interiora di animali per cena. Sagre di conigli. Squali. Coccodrilli. Fustigazione di porci. Incesti familiari.

Tutto questo gonfia l’animo di gioia in chi ha la fortuna di nascere lucano.

Il tipico lucano lo riconosci, è dotato dello stesso fascino silenzioso e arcaico dei propri luoghi rurali, indifferenti allo scorrere del tempo.

Nina era una giovane paziente e fattiva, tanto da non essere mai soddisfatta di se stessa. La rugosità della natura della sua terra, a volte, la induriva, ma al contempo la saturava di una voglia di ribellione spregiudicata che la rendeva così anticonformista da risultare demoniaca agli occhi della gente.

Era solita trascinare i suoi 49 kg per i borghi lucani, bruciando nel rogo dei suoi pensieri, in mezzo a polvere e vento e lì dove passava lei rimbombava una risatina che è tipica solo delle persone pazze.

La gente del suo paese la scansava così come avrebbe fatto con la peste bubbonica. Molti sembravano essere maratoneti al suo cospetto, le passavano a fianco alla velocità della luce con la faccia rivolta al lato opposto, lasciando echeggiare un fugace “Ciaaoo o o o” disinteressatissimo e di circostanza, senza che lei riuscisse mai a dire “A”.

Nina adorava i viaggi on the road perché questi non hanno tappe obbligate. Amava lo spettacolo cromatico delle chiome verdi della sua terra quando cozzano con la miriade di sfumature del cielo e pareva invasata quando scorgeva sullo sfondo del finestrino della sua Panda quel mare, quelle colline e quelle montagne così aguzze e taglienti che le ricordavano le lugubri lame dei coltelli che sfoggiava Peppino, il macellaio del suo rione, ogni giorno sul bancone.

Al di là dei mattoni, al di là di un letto, al di là di un tetto, casa di Nina aveva mille colori, borghi scavati nelle rocce di montagne avvolte nel silenzio e vista sul mare.

Un giorno Nina uscì all’alba. Si era messa al volante della sua auto e decise di godere della bellezza del paesaggio in continua metamorfosi che avrebbe sfrecciato con lei. Fece questo per ore, armata della sua nuova Nikon, finché si arrestò nel momento in cui il cielo s’incendiò e il sole iniziò a giocare con le increspature di un lago che non aveva mai visto prima.

Faceva caldo. Si rollò una canna. Il suo cervello si dissolse nella laguna che aveva un nonsoché di psichedelico e ipnotico con effetti allucinogeni, per merito di quel tramonto. Meditò di insediare in quel pezzo di terra sperduto e dimenticato da Dio una piccola comunità di gente felice dedita allʼamore libero sotto le frasche, ai tamburi, ai flauti e alle erbe. Brandelli di pochi suoi neuroni superstiti presero a galleggiare nell’acqua con gente immaginaria che si rotolava nei fanghi, abbracciava sassi e parlava agli alberi.

Iniziò ad ululare un ritornello scanzonato quando, vuoi per il caldo, vuoi per i trip causati dalla cannabis, venne folgorata da una strana angoscia esistenziale.

Si sentì addosso una serie di sguardi torvi, indici puntati contro e una folla di voci adulte che intonarono all’unisono un solenne “Ma io alla tua età…”. Queste, dall’alto delle loro poltrone, le suggerirono di non perdere tempo a ciondolare e a sognare, consegnandole però la realtà in frantumi di una società già fallita, il cui progetto di vita sarebbe dovuto essere uguale per tutti e consisteva in nient’altro che maritarsi, figliare, fare soldi e crepare. del suo entusiasmo restò, per un attimo, una voce roca e strozzata e la paura di tornare a schiacciare l’acceleratore per andare – dove non si sa- a godere dell’eccitazione della corsa.

Non se la sentiva di rimettersi alla guida in quelle condizioni e, per scacciare i pensieri negativi, dopo un fugace bagno nel lago, rincorse un vecchio autobus di passaggio come Wile Coyote faceva sempre col suo pennuto nel bel mezzo del deserto, sotto al sole cocente. Riuscì a salire sul mezzo, abbandonandosi alle spalle la Panda. L’unico posto a sedere si trovava vicino a un bestione dall’aspetto così burbero che se avesse cacciato unʼaccetta per farle una carezza non ne sarebbe rimasta stupita. Avrebbe potuto ucciderla anche solo accostandole al naso l’ascella. Si affacciò al finestrino per respirare a pieni polmoni. Un tessuto musicale – fatto di richiami, voci, sussurri e implorazioni provenienti da una chiesetta di campagna – avvolse lʼaria. Nina, estasiata, fece fermare l’autista e scese in fretta e furia a terra, per avvicinarsi alla cappella.

Intanto, il ventre di una donna seduta in prima fila davanti all’altare riposto all’esterno diede alla luce un canto lento, dolce, che invase lo spiazzo e fermò il tempo. Le persone presenti alla funzione diventarono improvvisamente comparse sbrindellate di un mondo perfetto. Si dissolsero in macchie via via più piccole, sempre più esigue, fino a sparire. Come quando lʼaereo si alza in volo e lo sguardo è spiaccicato sul finestrino, e tutto si fa minuscolo. Tutto viene spazzato via da nuvole e fiotti di azzurro.

Nina pensò che cadaveri appesi in croce e teste di martiri mozzate ed esposte in teche d’argento non erano il massimo della gradevolezza, ma persino le chiese potevano essere luoghi carini, senza le persone. Eh, le persone.

“Le persone come te devono morire, vuoi fare il maschio? E mo ti faccio vede’ come abbusc’cano i maschi!”

Come bimbe dispettose, queste parole sputarono nelle orecchie di Nina. Due ragazzini con la bocca piena di birra attraversarono la strada, le si pararono di fronte e le intralciarono il cammino. Non ebbe il tempo di rispondere che il primo pugno le ruppe il naso. I capelli che incorniciavano il volto di Nina erano, forse, troppo corti per i loro gusti? Ma da quando la cornice di un quadro ha più valore del dipinto? Stordita dal dolore, Nina non ebbe lucidità e tempo per indirizzare una testata bella forte in faccia ai giovinastri. Riuscì solo a desiderare ardentemente di vedere i loro volti
tumefatti, ma l’orrida immagine sparì al pensiero di Carmen, di quelle sue soffici labbra e di quel suo dolce sorriso. Il secondo pugno le fece sgorgare il sangue dalla bocca, che si era riempita di un sapore metallico insopportabile. I ripetuti calci le spaccarono una costola, e via con i crepitii e gli scricchiolii del resto delle ossa. Nina chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi per visualizzare il momento in cui si era avvinghiata per la prima volta a Carmen su di un letto, senza dire una parola, mentre percorreva la linea dei suoi fianchi con le mani, tramutandole la pelle in quella di un’oca. Le iniziarono a fischiare le orecchie. Poi svenne.

Il dolce canto che riecheggiava dalla chiesetta si tramutò in un lamento, il lamento di una terra che ricorda il pianto di una cornamusa e il gorgheggio di unʼarpa. Le vocalità fuori dal tempo della Basilicata affondarono nella nebbia sulle colline, quando corse persino il vento a schiaffeggiare Nina. Così, al dolce arpeggio subentrò il ritmo energico e stridente delle onde del mare poco distante da lì, e la ragazza ebbe lʼimpressione di star prona davanti a Dio, e di avere finalmente la certezza che nemmeno a lui interessava di lei. Cristo si era fermato ad Eboli, e insieme a lui anche la civiltà.

Quel giorno, Nina era uscita all’alba. Ma si sa, lʼalba è una malafemmina e custodisce quel prezioso pelo di figa che tira più di un carro di buoi. L’alba è solo lʼinizio di un nuovo giorno che ancora non hai vissuto e di cui non sai  veramente niente. Non immagini minimamente cosa ti stia preannunciando, ma tu lʼammiri lo stesso, fai presto a dire di amarla e ti pieghi a novanta per immortalare tutti i suoi colori sfumati in uno scatto degno. La sua bellezza ti proietta in voli interplanetari perché – sì, caspita! – ti fa sentire leggero come una piuma, ti fa volteggiare nellʼaria, sei proprio felice. Vorresti un ciuccio e le caramelle e un libro da colorare e avanti così fino al tramonto, che ti ritrovi a osservare, maciullato, sotto al famoso carro di buoi. E digiti su Instagram #sunsetlover. Ma pensi “P O R C O ZZZ I O”.

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