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Sulle tracce della madre. “Mia Sconosciuta” di Marco Albino Ferrari

Il nostro accesso nel mondo, ciò che custodisce e dà forma, ciò che media e nutre: la madre dovrebbe essere la conosciuta per eccellenza, soprattutto quando è una narratrice instancabile, quando non tiene nulla in ombra, quando ci offre gli strumenti per scalare il mondo.

Eppure, nell’impresa di raccontare la propria madre, Marco Albino Ferrari si rende conto che ha avuto al proprio fianco, tutta la vita, una donna che gli è rimasta comunque oscura. Candidato al Premio Strega 2021 da Paolo Cognetti, Mia sconosciuta (Ponte alle Grazie) è il tentativo di restituire il ritratto di una donna che si è sempre raccontata, ma che ora deve farsi raccontare.

Ce ne rendiamo conto davvero verso la fine del romanzo, quando la madre condivide con Marco Albino com’è stato telefonare al suo amore di gioventù, riscoperto per caso come un quasi-vicino, sentirlo dall’altra parte della cornetta dopo decenni in cui non avevano più saputo nulla l’uno dell’altra, e rendersi conto che la vita che lui aveva vissuto non aveva più compreso lei da quell’ultimo incontro a Milano. Nemmeno come ricordo forse, mentre la madre aveva perpetuato il loro incontro e la loro relazione all’infinito, raccontandoli a Marco – e Marco riportandoli a tuttə noi –, costruendo e vivendo in una storia parallela che non sarebbe mai stata quella ufficiale, ora lo sa. Una verità non–vera ma reale, non solo per la madre ma ora anche per Marco e per noi, e cominciamo a capire perché questo sia, in definitiva, un romanzo e non una biografia: perché «siamo noi che ce la raccontiamo» (p. 228).

Ma torniamo all’inizio dell’escursione nei ricordi.

Courmayeur, per me, è il luogo del viso sorridente di mia madre.

Marco Albino Ferrari, Mia sconosciuta, p. 30

Figlio unico di una donna (ma un’eterna ragazza) madre, Marco Albino, grazie alla propria posizione privilegiata di compagno di una vita e osservatore di un’intimità oltre le apparenze sociali, ci conduce alla scoperta di una donna forte e debole, decisa e timorosa, solitaria ma non sola, chiusa nella sua singolarità ma bisognosa dell’aperto.
La vediamo sorella, studentessa, figlia, madre, la leggiamo dibattersi per l’autoaffermazione al di là delle aspettative e delle pressioni sociali ma rimanendone sempre all’interno, senza allontanarsi troppo dall’orizzonte protettivo delle proprie origini, tornando sempre a valle dopo ogni escursione.

Un dualismo apparentemente inconciliabile che si ripete continuamente, lungo il libro: Mariachiara con il suo destino borghese e la madre, la città di Milano bombardata e la purezza dei ghiacciai, Edi il partigiano ebreo e il miserioso padre di Marco, una Milano che cresce a dismisura in modo tentacolare e il bisogno della madre di ritirarsi in se stessa.

Perché ci sono due amori, nella vita della madre, e tantissimi doveri borghesi con cui confrontarsi. Ma anche privilegi che derivano da questa condizione: per esempio, la possibilità di continuare a studiare in una Milano distrutta dai bombardamenti, la cospicua eredità con cui mantenersi (quasi) tutta una vita senza dover lavorare e potersi dedicare all’arte e all’alpinismo.

Due amori che non si addicevano a una ragazza di buona famiglia negli anni Sessanta: la montagna e un uomo di vent’anni più grande, sposato, partigiano. Le Alpi ed Edi Consolo si sovrappongono, tornano a coincidere nella parte centrale del libro in cui la libertà di frequentarlo corrisponde alla libertà di vagare per le montagne, una coppia che altrimenti non potrebbe esistere ora protagonista delle proprie esplorazioni, che può decidere il proprio passo, prendere un sentiero già tracciato o avventurarsi in uno nuovo. Una lezione importantissima per la giovane madre di Marco Albino, come lui stesso sottolinea più volte, e che la porterà a essere la donna che il figlio conosce.

Ha vissuto dentro una vita di astrazioni, di memorie alimentate, e in questo luogo così proibitivo e così lontano, in questa scatola di lamiera, sperduta in un nulla così favoloso anche se reale, così fantastico anche se tangibile, in questo microcosmo immerso nel macrocosmo dei ghiacciai, ha trovato un rifugio nel quale ritornare.

Marco Albino Ferrari, Mia sconosciuta, p. 106

Questo rifugio è fisico, un rifugio di montagna (la «scatola di lamiera») al quale la madre torna spesso, ma è anche un luogo della memoria da custodire e da frequentare. Lo stesso valore, ma in città, lo avevano le crisi respiratorie e di rabbia a cui la madre si abbandonava di tanto in tanto (asma autoindotto è la diagnosi medica), una malattia che le permetteva di isolarsi dall’esterno, di (rac)chiudersi in se stessa, di smettere di funzionare come soggetto pubblico, sociale e politico – anche come madre.

La maternità ricercata è un altro tema che vediamo svelarsi man mano che il libro si avvicina a noi come tempo storico: all’inizio, la madre e Marco sembrano soli contro il mondo, poi ci rendiamo conto che la storia ufficiale è composta da tante piccole memorie che non coincidono, da racconti che slittano e non collimano, riportati alla luce anche da Sarah Lutgerink, che presenta una nuova visione dell’accaduto, un quadro più completo e una nuova forma di sorellanza.

Penso che la forza di Marco Albino, quella di fare nomi senza timore, venga anche dal fatto che ci presenta una versione possibile della storia, quella in cui si è trovato a vivere, costruita dalla madre, in cui aveva totale fiducia e che l’ha reso chi è. Ma che, ora ne è consapevole, potrebbe essere stata sempre un’opera di autoconvincimento.

Per me lei è stata madre, padre, compagna, maestra di montagna, e ha acceso le mie passioni più ardenti e distruttive. E, forse, diventati un copro unico, mi ha risucchiato qualcosa di vitale.

Marco Albino Ferrari, Mia sconosciuta, p. 195

Ma il due è anche la coppia: quella formata dalla madre e dal figlio, contro i pericolosi poli maschili che potrebbero metterla in pericolo. Edi prima, che se fosse rimasto non avrebbe lasciato spazio a Marco, e poi nella minaccia del suo ritorno, e Anton poi, con tutte le sue possibilità negate dalla versione di Sarah (uno che ha abbandonato multiple famiglie, già formate e non, alcolizzato e drogato), entrambi pittori, proprio come la madre, che le hanno lasciato un modo di vivere e un figlio. E la perpetuazione dell’amore per Edi – e per una possibile versione di se stessa – diventa anche la ripetizione della libertà regalata dalla montagna, un’esperienza spirituale appagante proprio per le difficoltà che pone fisicamente e mentalmente davanti e che vanno superate, una sorta di piccola vita all’interno di una vita più ampia. Su quest’esperienza si baserà gran parte del rapporto tra Marco Albino e la madre, scalatori appassionati e instancabili, votati alla montagna e alle sue leggi, alla concentrazione e al silenzio, in cui la madre veste i panni della guida e di chi apre la strada. Un’eredità che diventa una forma mentis, che plasma il carattere e il destino – e la sua fine.

Quando a pagina 236 per la prima volta la madre ha un nome, Rosamaria, è il momento stesso in cui si sta per ripetere la separazione suprema da ciò che resta della madre, ma anche il ricongiungimento definitivo con ciò che la madre ha lasciato, e che è la chiusura di questo romanzo.

Questo libro è il racconto che mi sono fatto di te, anche se so che in parte mi sei sconosciuta.

Marco Albino Ferrari, Mia sconosciuta, p. 232

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