we-are-Who-We-Are-Guadagnino-barca

We Are Who We Are, grazie a Luca Guadagnino

(la canzone che devi ascoltare mentre leggi è, ovviamente, questa)

È il 2016 e siamo a Chioggia, all’interno di una base militare americana. Ma questo lo scopriamo dopo: il primo ingresso in We Are Who We Are (“Siamo chi siamo”) è attraverso gli occhi di Fraser, i suoi capelli decolorati, i tic nervosi, le unghie smaltate. Adolescente di NYC, accompagna le madri nel loro trasferimento nella base, di cui la madre biologica è stata nominata colonnello.

Senza paura Luca Guadagnino, Francesca Manieri e Paolo Giordano ci portano proprio al centro di dinamiche familiari, politiche, di branco e di gruppo che sono sotto i nostri occhi per essere messe in discussione e spezzate.

Ci sono Fraser, adolescente che in italiano sarebbe senza dubbio definito “particolare”, e le sue madri Sarah e Maggie; c’è Caitlin, suo fratello Danny e i genitori Richard e Jenny; lo stuolo di amici di Cate: Britney, Sam, Craig, Valentina, Enrico. Ci sono Jonathan, tutti i commilitoni e gli insegnanti che vivono nella base. C’è il bisogno di essere teenager, di crescere dentro il proprio corpo e allo stesso tempo capire chi lo abita; la necessità di ricoprire un ruolo e funzionare all’interno di un meccanismo, e capire se si esiste all’infuori di esso.

È universalmente riconosciuto, da pubblico e critica, che We Are Who We Are parli di fluidità: ma non penso sia solo quella di genere, anche se è la più palese – perché coinvolge i due protagonisti, i due poli della storia, Fraser e Cate – tanto per un contesto italiano quanto per uno statunitense. In questa terra di mezzo, in questa bolla dentro un Paese straniero, con le proprie regole e le proprie apparenze, si agitano persone che non riescono più a interpretare il ruolo che viene loro richiesto. Più o meno in segreto, esercitano rituali che li aiutano a dare un senso, a capire che esistono.

A primo impatto, We Are Who We Are sembra una raccolta di freak: persone fuori dal comune, diversi, emarginati, ribelli, confusi. Quello che ci viene mostrato (senza giudizio o morale intrinseca) è che i freak sono tra noi, ma soprattutto lo possiamo essere noi stessi in una percentuale variabile, pure in una realtà così regolamentata e stereotipata, creata per non cedere, come quella delle forze armate USA. La divisa è uno schermo, un soldato non fa una famiglia, il mondo esterno preme per entrare: con la musica, con la moda, con il sesso, con la guerra. Paradossalmente, quindi, i personaggi che decidono di vivere appieno la loro apparente (o fondamentale) stranezza sono in realtà i più veri, quelli che non hanno paura di essere chi sono.

Luca [Guadagnino] ha detto che Fraser non è gay. E Fraser non è gay. E non è etero. E non è bisessuale. Perché non dà a se stesso etichette, non si dà definizioni.

Jack Dylan Grazer, l’attore che interpreta Fraser, in un’intervista con Vulture

La cura dei riferimenti che costellano gli otto episodi di We Are Who We Are è infinita. Quello più evidente: la riproduzione quasi fedele del videoclip di Time Will Tell e la scelta stessa di Devonté Hynes come music spirit animal della serie – come lo era stato Sufjan Stevens per Call Me By Your Name – per il suo manifesto di esplorazione continua, dalla musica all’abbigliamento al makeup. Le testimonianze delle violenze subite da ragazzino a Londra anche da parte di altri BIPOC costellano tanto le sue canzoni quanto le sue interviste: «L’idea di essere anche solo un filo diverso dalla norma era un grandissimo no. Era l’inferno. […] Nella black culture c’è quasi un culto della mascolinità nera». E l’album Freetown Spirit, uscito nel 2016, l’anno in cui è ambientato We Are Who We Are, è dedicato da Devonté a «chiunque si sia sentito dire che non è abbastanza nero, troppo nero, troppo queer, queer non nel modo giusto, chi non viene apprezzato».

E, ancora: nella scena della barca (qui in cover), Fraser sta leggendo Night Sky With Exit Wounds, una raccolta di poesie dell’autore metà vietnamita metà statunitense Ocean Vuong, che ha raggiunto la fama nel 2019 con On Earth We’re Briefly Gorgeous (in Italia è uscito quest’anno con il titolo Brevemente risplendiamo sulla terra, con La nave di Teseo). Un dettaglio che dimostra quanto Fraser sia attento agli autori emergenti e che non seguono la norma, ma che ha anche un contenuto parlante: è una raccolta che parla di come violenza e delicatezza possano coesistere, di innamoramenti gay, di distruzioni di città, della parte materna e femminile di una famiglia.

Non solo: curati da Giulia Piersanti, i costumi, in particolare quelli di Fraser, sono perfetti. Dal cult di Carharrt, nato come brand di tute e abbigliamento da lavoro, all’hype di Aries, che invece vive della cultura skate, alle iniezioni di Comme Des Garçons, è in realtà indossando Raf Simons che la persona (in latino significava maschera) di Fraser si compie pienamente. È ciò che indossa nella prima puntata, quando compare quasi navigando nella gigantesca maglietta con il viso femminile, e nell’ultimo episodio, protetto da un maglione oversize verde.
Si legge, sul sito del designer (traduzione mia): «Il messaggio più importante che Raf Simons vuole comunicare è: PRIDE IN INDIVIDUALITY». E, ancora: «Non voglio mostrare vestiti, voglio mostrare la mia visione, il mio passato, il presente, il futuro. Uso ricordi e visioni, e cerco di inserirle nel mondo di oggi». È uno dei due designer che Fraser cita nel corso della serie, a cui fa riferimento e che indossa come un manifesto: i suoi look colorati ed eccentrici («propriamente, è un aggettivo che si riferisce a cose che non hanno il medesimo centro di altre») sono un voluto e studiato contrasto con la divisa militare, tanto mimetica quanto gli outfit di Fraser sono fatti per non passare inosservati, tanto uniformante quanto gli accostamenti di Fraser lo separano dal resto.

I dont want to show clothes, I want to show my attitude, my past, present and future. I use memories and future visions and try to place them in todays world.

metadescription del sito di Raf Simons, così bella che l’ho messa anche in originale

In We Are Who We Are, sappiamo che è il 2016 non perché ci sia qualche indicazione temporale – anzi, ogni episodio inizia con un “Qui e Ora” (Right Here, Right Now) – ma perché appaiono, sullo sfondo, i dibattiti presidenziali tra Donald Trump e Hillary. Guardare la serie qualche giorno dopo il risultato delle elezioni americane è stato da pelle d’oca, soprattutto vedere Richard, il padre di Cate, aprire un pacco per posta e indossare con la figlia gli infamous cappellini rossi con lo slogan Make America Great Again, in particolare dopo un anno come il 2020 in cui la coscienza della police brutality e dell’appoggio presidenziale è esplosa, il rifiuto o la minimizzazione dei diritti LGBQTI+ – e intanto sentire rimbalzare per il mondo la notizia dell’elezione della prima senatrice MtF e del primo black gay congressman.

Una cosa che invece ci aspettavamo tutti, chi più segretamente e chi meno, era ritrovare un po’ dell’atmosfera di Call Me By Your Name che ha conquistato il mondo (e ha finalmente reso un po’ accettabile anche agli occhi di chi ci è nato, come me, la bassa padana). Anche qui piccole strizzate d’occhio, come quella tra Fraser e Cate che reggono le due estremità della bottiglia di vino richiamando Elio e Oliver e il braccio della statua, ma We Are Who We Are ci toglie qualsiasi fantasia di idillio e di armonia: è una serie che richiede la nostra attenzione, non il nostro giudizio; le nostre domande, non le nostre conclusioni.
Dobbiamo accettare che alcuni personaggi di cui abbiamo preso le parti sin dall’inizio siano molto più oscuri di come ci potevamo immaginare, che personaggi apparentemente negativi sono più problematici che malvagi, che nessuno è salvo da contaminazioni, paura e cambiamento.

Infine, una nota personalissima. Ho vissuto sei anni per Bologna, mi manca ogni giorno e non sognavo una conclusione con Fraser che cammina sul ponte di Stalingrado, la corsa dalla stazione a Porta Saragozza (impossibile da fare Guadagnì, sappilo), il Locomotiv pieno di persone (mentre l’ultima volta in cui ci sono stata io, nel 2017, eravamo decisamente meno e molto più sudati per Jens Lekman) e il Meloncello in tutto il suo splendore. Grazie per il regalo, Luca. A proposito di regali: la mia canzone preferita di Blood Orange da Cupid Deluxe è questa, per finire come abbiamo iniziato.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.