Elisa Teneggi Vetro Germogli

Vetro

di Elisa Teneggi

Una volta, sul vetro, è passata mia nipote in abito da sposa. Si portava addosso un vestito lungo e bianco, una gran acconciatura, e i tacchi, come una diva della televisione. Alla festa c’erano gli invitati ed erano tutti belli, tenuti bene. Come stare al matrimonio mio e di Paolo, quando anche noi eravamo belli, e giovani, e ballavamo dopo la cerimonia nel salone dell’oratorio. C’era allegria, forse anche spavento. Ma dopo anni le emozioni si confondono e io non lo so più. Ma una proprio non si leva di torno, ed è quando lo vidi per la prima volta. Tornava dal militare e aveva la testa rasata, l’uniforme ancora addosso, e gli occhi grandi e seri fissi al cielo. Poi era andato nei campi a vedere com’erano messe le terre, e quello che avrebbe dovuto fare per aiutare a tirare avanti, ora che era rientrato. E da quella sua casa diceva Non me ne vado più, che era stato via per fin troppo e che no, non gli piaceva la vita del reggimento. Con le baracche in comune, la doccia da condividere, e da spidocchiarsi almeno due volte al mese perché ci si passano le lenzuola sozze. E io lo capivo, perché io tenevo dietro alla mia casa perché fosse tutta a posto la mattina, dopo che si era dormito la notte, e poi la sera, prima di andare a letto, dopo che ci si aveva vissuto di giorno. Mi torna quella sensazione dopo che l’avevo lasciata perdere. Però attraverso il vetro è difficile vedere altro che questi stupidi riflessi.

A volte sbieco i miei figli invecchiare, e i capelli che gli si fanno bianchi. Mi aiutano a tirarmi su la mattina, e ora anche io porto una mollettina per tenermi indietro le ciocche come una valletta della tivù. C’è la luce che entra qui dentro. Poi inizio a non vederci più ma non voglio accendere la lampada, mi infastidisce gli occhi. Poi mi scoccia che abbiano da pensare anche a me. Io sono sempre stata una indipendente, e agganciata a questo letto, io, proprio non ci sarei mai voluta stare. La schiena inizia a cedermi quando faccio per mettermi in piedi, e in bagno mi aggrappo alle maniglie per non volare lunga per terra. Mi pare di essermi fatta come Paolo, ché prima di morire anche lui doveva sempre aggrapparsi a tutto perché quella sua gamba scassa non lo teneva più se andava via dalla poltrona. E c’aveva i bastoni, ma prima doveva arrivarci. Allora si puntellava dritto sul muro e si muoveva lento, e questo mi dava un gran fastidio perché io c’avevo da passare da una stanza all’altra e lui sempre nei piedi. Allora mi veniva da urlargli. Ci stavamo forse facendo vecchi a due ritmi diversi. Lui, con me, a trovare i nostri figli non ci veniva mai, gli faceva troppa difficoltà. Però quando avevo iniziato che dormire stesa a letto mi dava problemi, rimaneva con me la notte in sala. Il lavoro dei campi, tutto nelle ossa. L’unica cosa svelta che aveva erano le mani, perché quelle ce le aveva sempre avute buone, da fare il sarto, prima di non vederci più. Puliva le verdure dell’orto e sminuzzava il prezzemolo. Intrecciava le teste d’aglio e piegava i cappelletti. Una delle prima cose era stata quando aveva dovuto mollare l’orto da un giorno all’altro, e farsi aiutare dai bambini a levare le ultime piante. Allora aveva preso a uscire di meno, lo venivano a catàre a casa. Lì dove le mie donne e mio padre avevano vissuto per le generazioni e che io ora ho abbandonato. Una casa piena di pianto e di morte, ma pur sempre mia. La sera si guardano i campi diventare blu e, quando tuona, il diavolo in carrozza passa sulle montagne al di là dello stradone. Questa casa è tutto quello che ho. Ma ora sto dietro al vetro e c’è luce e c’è buio, e lascio passare le ore prima di rimettermi a dormire.

Quando stavo a casa mia era come non avere mai tempo. Dietro il vetro, invece, mi annoio, si va avanti con troppa calma. Per fare qualcosa ripenso ai versi delle bestie nel capanno pieno di sterco e acqua lercia, all’odore della merda, al grembiule zeppo di fili di paglia dopo che risalivo a manìre il mangiare. A volte mi veniva a collo la zia, portata al manicomio e che là ci era impazzita. Dicevano che aveva il diavolo addosso e che serviva un prete, mica un medico. Oppure mia mamma per i vitelli perché era lei che li aveva messi su con mio padre. Io gli ho sempre aiutato, persino con i tedeschi in casa. Quando arrivava dentro mio padre non c’era da farlo stare a tribolare, che lui ne aveva già sentite abbastanza. E invece fatta che fu quella la mia casa, io con Paolo la sera mi riempivo di parole se qualcosa non andava bene. Dove stava la lampada con l’olio noi avevamo messo una televisione già a colori. C’era da tenere la voce bassa per parlare a cena. Poi tra tirar giù i piatti, mettere a letto i bambini, c’è l’apparecchio che ronza, ed è già la sveglia che mi butta in piedi la mattina, ed è sempre Paolo di fianco a me, poi Paolo e i bambini, ma sempre la colazione è pane e caffelatte, e quando mi portano le frattaglie di vacca ci faccio le frittelle e le passo ai bambini che frignano perché non vogliono mangiarle, ma sono scappellotti se rifiutano quello che gli metto nel piatto. Non c’è solitudine, e io vorrei che mi lasciassero stare. Ora sono spariti tutti.

Oggi sul vetro c’era mio figlio. Ha fatto un incidente. In macchina, mentre tornava dal lavoro. Si è schiantato su un camion, l’hanno messo subito in ospedale ma il dottore non dice ancora niente. Me l’ha detto mia figlia, poi è scappata a vedere come stava. È stato così anche per la bomba dei partigiani, quella che ha fatto saltare per aria mio nonno. Non lo avevano avvertito, ci ha salvato la vita. La stanza si è fatta buia, poi compare mia nipote. Oh bella, che cosa ci faceva lei lì. Dopo il matrimonio era andata a vivere con il marito in un’altra casa. Me l’avevano fatta vedere, una volta. Era grande, signorile, soprattutto nuova. Però una casa senza bambini è una casa vuota, e speravo che avrebbe rimediato presto. Mia nipote è un pezzo di donna. Ha preso i capelli biondi di Paolo e gli occhi azzurri da me. Però il naso non è di noialtri, dev’essere del padre. Lì il vetro si è levato un pochino. Però non riuscivo a vederla bene in faccia, aveva gli occhi scuri. Mi ha detto che mi avrebbe vestito, e che saremmo andate a vedere lo zio. Quando mia mamma era morta di cancro che io ero appena sposata, mio padre, con la faccia rovinata raggrinzita e le mani secche di polvere, mi aveva detto che era ora di andare a vedere la mamma. Quella casa era piena di morti. Ma ecco che riappare Paolo, serio e fiero appena tornato da militare, e io che lo incontro sulla porta come la prima volta. Ma oggi, non so mica perché, si gira e mi tende la mano. Non può mancare molto, gli dico io. Non può mancare molto.

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