I sogni muoiono a Chinatown

Da una parte c’è una casa editrice che si chiama Jimenez, come il fantomatico paese, citato nel film Le tre sepolture di Tommy Lee Jones, che è “una forma dei desideri, il luogo in cui si può dire di essere, finalmente, a casa”. Dall’altra c’è un film che si intitola Chinatown, come un quartiere che “ha finito per significare qualsiasi posto in cui [il protagonista] non si sente a proprio agio”. In mezzo, come una perfetta operazione di sintesi che fa incontrare la prima con il secondo, Il grande addio di Sam Wasson.  Un libro che già di per sé è sintesi, perché riesce nell’intento di parlare di cinema, emozioni, luoghi e persone usando il film del 1974, diretto da Roman Polanski, come scatolone catalizzatore di tutta la materia umana che la sua lavorazione sottende.

www.jimenezedizioni.it

Chinatown è un neo-noir, un’opera fuori dal suo tempo, tanto omaggio quanto superamento di un genere che aveva vissuto la sua golden age tra il 1941 e il 1958. Considerato da molti come uno dei migliori film della storia del cinema, ha il merito di aver creato un topos narrativo, quel quartiere cinese del titolo che compare brevemente nella scena finale ma è riconosciuto come proverbiale sintesi – ancora – di tutti i fatal flaw, gli insuperabili e giganteschi fantasmi del passato che ogni personaggio ben costruito deve sconfiggere per evolversi.

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Wasson, storico del cinema e autore di sei libri perlopiù inediti in Italia, ha l’intuizione di scrivere Il grande addio come se fosse un romanzo hard boiled, proiettando fatti e persone realmente esistiti in una narrazione alla Raymond Chandler fatta di una miriade di personaggi secondari e parentesi aperte. Hai spesso l’impressione di perderti, nel dedalo di date e accadimenti che accompagnano sviluppo, realizzazione e distribuzione di Chinatown; finché, esattamente come in Chandler, non ti rendi conto che l’intreccio è solo sfondo per l’analisi dell’ego strabordante dei quattro protagonisti, ognuno impotente contro la sua Chinatown personale.

 

www.samwasson.com

Ci sono i due Robert, Towne e Evans, eroi romantici e autodistruttivi. Il primo è un fixer, abile riparatore di copioni altrui ma lento e insicuro nei lavori personali; un autore frustrato dalla macchina hollywoodiana, che si rivede nei detective cinici e disincantati dei film noir e decide di inventarne uno tutto suo. Il secondo è un giovane produttore rampante nostalgico di una Hollywood classica ormai al capolinea, che fa rinascere la Paramount dalle sue ceneri e fantastica di riportare sullo schermo la magia un po’ naïf della golden age degli Studios. Entrambi perdenti di successo, entrambi consumati dai loro sogni e dalle loro dipendenze.

Poi c’è Roman Polanski, che i suo fantasmi ce li ha veri e ingombranti, dalla madre rastrellata nel ghetto di Cracovia al cadavere di Sharon Tate, moglie incinta trucidata a Los Angeles mentre lui si trova in Europa. Un personaggio tragico e condannato all’infelicità, un anaffettivo che rifiuta la psicanalisi per non depotenziare la sua ossessione registica e finisce al confino per molestie a una tredicenne.

Sharon Tate e Roman Polanski (Parigi, 1968)

Infine Jack Nicholson, attore istrionico simbolo della Nuova Hollywood, l’unico protagonista proiettato nel futuro nonostante un’affettività intermittente e la ricerca disperata di una figura paterna.  

La ricostruzione di Wesson condivide con la narrativa noir anche l’analisi del contesto geografico e usa Chinatown, ambientato nel 1937, per disegnare la parabola Los Angeles, un’oasi nel deserto che a metà degli anni Settanta è ormai una metropoli prosperata nella corruzione e nella mercificazione dei sogni. Un luogo mitico in piena decadenza culturale, rappresentata da un’industria cinematografica in declino e soppiantata, anche nei direttivi dei leggendari Studios, dalla forza dirompente e dall’impoverimento contenutistico della televisione.      

Il grande addio del titolo è in definitiva quello a una certa idea di America, dato con la consapevolezza dell’innocenza perduta dopo il Vietnam e gli omicidi della famiglia Manson. La presidenza Nixon è il brusco risveglio dal sogno hippie, una Chinatown da (non) affrontare rifugiandosi nella velocità della cocaina e del consumismo sfrenato.

Il libro di Sam Wesson ha comunque il pregio di non essere nostalgico e, così come il film di cui parla, fonde i canoni del genere con un taglio documentaristico che pone chi legge all’altezza dei protagonisti, con uno sguardo oggettivo, pragmatico e – forse sì – un po’ malinconico. Come quello di Capitan America quando si sveglia, dopo 70 anni di ibernazione, in un paese che non è più il suo. 

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