Mondi di poesia: “La voce di Apollo” di Massimo Salvati

È sempre complesso parlare oggi di poesia d’amore: il rischio che sia un argomento finito, troppo abusato o destinato alla mediocrità è sempre presente, e non è facile collocarsi in un filone affollatissimo per ritargliarsi il proprio spazio vitale.
Leggendo La voce di Apollo (Ensemble), esordio poetico di Massimo Salvati, non si ha il minimo dubbio: il poeta riesce a guadagnarsi la propria identità, senza cadute di stile o patetismo come accade a molti poeti d’amore. Non solo: nonostante la giovane età, quella di Massimo Salvati è una poesia matura, naturale ed efficace, fatta di quotidianeità, sentimento e dolore.
Ho letto la raccolta più volte, massacrando pagina dopo pagina mentre sottolineavo versi (sì, scrivo sui libri, mea culpa!), mi appuntavo ogni riferimento, facevo le mie considerazioni. Quando una raccolta di poesie viene “riscritta” in questo modo da chi la legge, ha centrato perfettamente il suo obiettivo: fa riflettere, e tanto basta.
Dunque l’intervista questa volta, cari lettori e care lettrici, è più per me che per voi: avevo bisogno di dialogare col poeta, sentire di nuovo il suo punto di vista, valutarne le scelte letterarie.

Cominciamo col parlare della genesi de “La voce di Apollo“. Come nasce questa raccolta e perché questo titolo?
L’atto del ricordo o del racconto genera un rapporto dialogico. Dialoghiamo con la nostra voce interiore. Questa ci parla di cosa ci resta e tace ciò che passa. Ho pensato a Barthes, all’Immaginario e le sue categorie, con la consapevoleza che ogni rapporto dialogico in poesia si fonda sull’atto dell’assenza, della mancanza, perché l’oggetto deve essere posto al centro. E l’oggetto non deve esprimersi. Una (ri)lettura che Alberto Savinio, autore che rappresenta per me un fondamentale del nostro Novecento, opera in Nuova Enciclopedia. Apollo è una delle voci che l’autore riattualizza nella sua società; e ne sfregia le vesti, capovolgendone il ruolo a musageta di un’inutilità perfetta.  D’altra parte, Elena è il nome che apre il testo, il controcanto dell’io poetico e centro della sua sindrome di Pigmalione: una statua che non muta e cambia solo quando la voce lo permette.

Bologna viene citata esplicitamente nella seconda poesia della raccolta, quella che embleticamente porta il numero I), quale è l’influenza sulla tua poetica?
La città si rende aperta ad ogni persona che arriva. Ognuno ne viene ancorato. Bisogna viverla e dedicarle qualcosa, anche una poesia. Ho voluto ringraziare il mio “tu” per tutto: Bologna e ciò che ha saputo dare; i compagni di vita e gli atri concessi, la spinta a rincorrere l’incoscienza, gli spazi riposti della pace. Delle piccole mattonelle su cui riposare.

Uno dei temi centrali della raccolta, oltre all’eros, è il thánatos nelle sfumature del dolore e della ferita, e tutto ciò che può esservi collegato. Un dolore che è prima di tutto fisico, ma anche e soprattutto emotivo. Molti sono i riferimenti nel testo, da “cicatrizzare uscite” a “soffiare sulla macchia fresca / che porto sul petto […]“, e almeno un’altra decina di esempi di questo genere. Ti va di parlarcene?
Il dolore è solo un utensile della costruzione di qualcosa che ci ha attraversato, che ha lasciato un segno, e subisce un processo di scorticamento progressivo da parte della voce che cerca di svelarne le sfumature; consapevole che la volontà di transfert dell’esperienza passi per la sconfitta della voce rispetto alla poesia.

Una caratteristica che salta all’occhio è l’utilizzo in alcune poesie di un registro informale e quotidiano: si birreggia, si coppieggia, tipico di situazioni leggere, perlomeno da pre-pandemia. Come è stato scrivere La voce di Apollo in questo periodo?
Ho iniziato a scrivere le prime poesie a marzo 2019, l’incertezza e l’assenza dei corpi, la mancanza del suolo occupato dalla nuda vita hanno rappresentato dei veri cortocircuiti. Credo che il Corpo sia stata la scoperta della nostra recente modernità. Il Novecento è una fase di eiezione peristaltica continua. Siamo eredi e sentiamo addosso tutto il peso del corpo che cambia, del tempo continuo in cui siamo immersi, dipinti dal colore di un’interminabile musica gialla da cocktail (Fizgerald).

Questa è una domanda che non si dovrebbe mai fare a un poeta e che puntualmente faccio proprio per mettervi in difficoltà: c’è una poesia della raccolta che consideri particolarmente importante e alla quale sei legato più delle altre?
Non ne ho di preferite, ma farei leggere questa:

Nel momento in cui mancava
la tua calma
la bava mucosa dell’universo
ci unisce, ma tu guarda l’avvolgente cumulo
di ricordi e io non so se
ridere e non so se piangere e non so
se perdere la cura di se stessi sia
permesso o vietato.
Dovevi avvolgere così quella tua
città vecchia. Dal primo giorno per vie borghi
all’ultimo metro di vita mi hai
chiuso dentro. Sprangare le porte,
dentare chiavistelli, cicatrizzare uscite.
Non sei più libero mi hai detto, non sei più
niente e sei solo questo. Una voce del tempo
leggera le pareti risale. Trasudano coscienza ed è
la muffa del ricordo.

Chi sono i tuoi punti di riferimento: c’è qualche poeta la cui influenza ha prodotto degli effetti sulla tua poetica?
Sono affascinato dai fuori sistema, in particolare Amelia Rosselli con i suoi “Spazi metrici”, Gozzano e le sue “piccole povere cose”, ma direi anche Valerio Magrelli e Peter Handke.

Se dovessi convincere un potenziale lettore a leggere la tua raccolta, come la presenteresti in maniera incisiva?
Volevo scrivere una raccolta fedele all’amore, ma anche di smascheramento dello stesso e della sua sconfitta. Una raccolta dedicata al sottobosco del non detto. Un processo di catabasi e ascendenza, che porta su in alto tra i viatici della memoria; dove la strada è sempre lunga e in salita, e le gambe sempre un po’ pesanti.


Massimo Salvati: Instagram.
Per acquistare il libro: Ensemble.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.