ansia climatica

Eco-ansia, solastalgia e capitalismo – Se l’alternativa torna possibile

È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Così Mark Fisher intitolava il primo capitolo del suo saggio più conosciuto, Realismo capitalista (Nero, 2018), riprendendo una frase di volta in volta attribuita ai filosofi Fredric Jameson o Slavoj Zizek. Uscito nel 2008, in prossimità della crisi finanziaria, Realismo capitalista ha segnato in modo indelebile, attraverso esempi concreti e trasformazioni riscontrabili, il dibattito sul capitalismo neoliberale, un sistema capace di permeare qualsiasi sfera da quella politico-economica a quella sociale, da quella psichica a quella educativa e ambientale. Capace, soprattutto, di normalizzare una condizione di crisi per cui è impensabile ipotizzare la fine delle misure d’emergenza.

“La sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente” Mark Fisher, Realismo capitalista,(p.26).

Lo stesso vale per la questione ambientale e l’immaginazione di un futuro di cui si fa sempre più fatica a disegnare i tratti specie alla luce di una catastrofe che, lungi dall’essere avvenuta o dall’essere imminente è, nelle parole di Fisher, attraversata. Una fine del mondo che si va esaurendo, che sfuma e che va lentamente in pezzi. Proprio come accade con la crisi climatica, la cui narrazione è in larga parte un continuo racconto dell’orrore teso a occultare qualsiasi alternativa al sistema vigente. Un esempio? Stando alle parole del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Gutierrez, l’ultimo rapporto dell’IPCC (2022) “è un atlante della sofferenza umana e un atto d’accusa schiacciante contro la fallita leadership climatica”. E se intendiamo la realtà come complesso prodotto della struttura del linguaggio, che non solo la descrive ma la crea e la organizza, queste parole si rivelano ancor più potenti nel suscitare inquietudine. Ma cosa succede se, lentamente, si afferma l’idea secondo cui “agire è inutile”? “Se i giovani non sono più in grado di suscitare stupore?” (p.28). E di stupirsi a loro volta? Cosa succede se, di fronte al racconto della fine, non si resiste immaginando nuovi inizi?

Sempre utilizzando la questione ambientale come leva del discorso, vale la pena approfondire due delle numerose risposte che potrebbero sorgere da questi interrogativi. La prima è la risposta di un movimento giovane, transnazionale e intersezionale che crea scompiglio e fa rumore, che lotta e si organizza proponendo idee e nuove visioni di un mondo più equo, più giusto, non per poche élites ma per tuttə.

La seconda, invece, è più problematica se consideriamo l’eventualità che si faccia spazio una risposta individuale, plasmata dal senso di rassegnazione di fronte al clima (dell’) incerto, da atteggiamenti nichilistici e comportamenti cinici alimentati dalla “prospettiva al ribasso di un depresso che crede che qualsiasi stato positivo, qualsiasi speranza, non sia altro che un’illusione pericolosa” (p.32).

Non è casuale, dunque, che l’impatto psicologico della mancanza di alternativa accompagnata dall’idea di un finale di autodistruzione già delineato risulti sempre più pesante specialmente per le generazioni più giovani, ossia per quelle che si trovano nelle fasi cruciali di sviluppo fisico, psicologico, sociale e neurologico. Secondo lo studio di Hickman et al. (2021) sul tema dell’eco-ansia e dello stress psico-fisico legato alla minaccia del cambiamento climatico (e, in generale, alla paura del futuro), gli effetti diretti e indiretti di una crisi climatica che sembra ormai endemica hanno ripercussioni importanti a livello cognitivo ed emotivo e spingono le fasce più giovani a percepire l’assenza di futuro. Soprattutto a causa del ripetuto fallimento dei governi di affrontare in modo serio, urgente, profondo e cooperativo le ragioni strutturali delle molteplici crisi che contraddistinguono l’Antropocene. L’ansia climatica, la preoccupazione delle minacce presenti e future dovute agli squilibri del sistema climatico e ai rapidi cambiamenti ambientali, racchiude diverse emozioni: inquietudine, paura, rabbia, disperazione, dolore, colpa e vergogna. Al contempo, però, comprende anche la speranza legata a un’ansia pragmatica, quella cioè che spinge a rispondere in modo proattivo alla moltitudine di turbamenti dovuti alle incertezze di un mondo apparentemente al collasso.

Come mostrano Hickman et al. (2021) in quello che a oggi risulta il primo e più completo sul tema dell’eco-ansia, più della metà di coloro che hanno partecipato alla ricerca – il campione è costituito da 10.000 persone tra i 15 e i 25 anni in 10 paesi con 1000 persone per ogni paese – ha riferito di essere preoccupata dal cambiamento climatico e almeno la metà di questə ha espresso sensazioni ed emozioni di ansia, rabbia, impotenza e colpevolezza, sostenendo che il pensiero della devastazione ambientale influisce negativamente sul proprio quotidiano. Oltre a una lunga serie di scelte di vita, la paura dell’irreversibilità del cambiamento climatico, ad esempio, influenza la decisione di avere figli.

Tuttavia, il dato più interessante nell’analisi di un disagio profondo e collettivo è, forse, la sensazione condivisa che i governi abbiano fallito e che continuino a rispondere in modo inadeguato a una minaccia che si fa sempre più esistenziale, tradendo in modo sempre più evidente la fiducia delle generazioni più giovani nei confronti delle istituzioni. Sensazioni pessimistiche sul futuro, sfiducia nelle politiche climatiche, stress quotidiano sono elementi a cui la comunità scientifica sembra essere sempre più interessata specialmente per ciò che riguarda la giovane età di coloro che affermano di provare tali sensazioni, sottolineando il rischio per tali fasce di sviluppare alterazioni permanenti ed essere così maggiormente esposte a psicopatologie.

Inoltre, malgrado non vi sia una correlazione diretta tra ansia climatica e malattia mentale, lo studio conclude che i fattori di stress legati a una dilagante sensazione di vulnerabilità possono fungere da aggravante nei confronti di disturbi mentali già presenti, incidendo non solo sul comportamento quotidiano ma anche distorcendo la visione del mondo, azzerando le aspettative per il futuro senza contare le ripercussioni sul rapporto con gli altri e coi luoghi conosciuti e cari con cui si è costruita una relazione di familiarità. Quest’ultima, infatti, potrebbe essere sostituita da un senso di desolazione e perdita, come ha osservato il filosofo australiano Glenn Albrecht attraverso il termine solastalgia, un neologismo derivante dalla parola latina solacium (conforto) e dalla radice greca algia (dolore). Un concetto che implica un sentimento di nostalgia per un luogo nonostante vi si continui a risiedere, ossia una sorta di nostalgia di casa quando si è a casa. Una sensazione sempre più comune che sorge quando un luogo viene alterato in modo repentino e spesso irreversibile, ha spiegato Albrecht dopo aver osservato l’emergere di questo tipo di disagio collettivo provocato dagli effetti ambientali dell’estrazione del carbone sugli abitanti della Upper hunter valley, in Australia.

L’analisi di Hickman e del suo team, inoltre, mette in parte in evidenza un discorso complesso che spesso fatica a essere riconosciuto e a essere decifrato. Un discorso che enfatizza la relazione tra ansia, catastrofe ambientale e capitalismo ponendo l’accento sulla colpa del sistema e rifiutando categoricamente quella del singolo, come scrive Anita Fallani su Jacobin. Occorre chiedersi, come sosteneva Fisher in Realismo capitalista, come sia possibile che un tale livello di malessere e disagio psicologico sia ritenuto accettabile, normalizzato e soprattutto privatizzato, ossia addossato all’individuo che conseguentemente ne esce colpevolizzato e investito dell’onere di risolvere il problema in modo privato, individuale. In tal modo, si evita accuratamente di toccare il punto nevralgico della questione: indagare, mettere in discussione, resistere e sovvertire le modalità attraverso cui il contesto – in questo caso il sistema capitalista neoliberale, colonialista e patriarcale responsabile, tra l’altro, del cambiamento climatico – influisce su una sempre più nutrita fetta della società globale, in particolare su quella meno responsabile delle molteplici crisi contemporanee.

Sulla base di questo copione siamo spintə a pensare che le nostre aspettative siano eccessive e che, quindi, dovremmo ridimensionarle, adattarle, adeguandoci alla precarietà del presente e all’inconsistenza del futuro. In base a tale copione, siamo noi i colpevoli. Una delle verità nascoste, tuttavia, è che non abbiamo aspettative eccessive ma spesso sbagliate, formulate sulla base dell’influenza pervasiva di principi e valori propri del capitalismo: crescita, profitto, successo, progresso. All’interno di questo quadro siamo spintə a pensare che il disagio psicologico sia solo affar nostro – nostra responsabilità, nostra vergogna – limitando la lettura del problema a una scala privata e intimistica, spesso troppo pesante da affrontare da solə. In tal modo si porta avanti l’idea dell’impossibilità di costruire un sistema altro proprio a partire dalla difficoltà di riconoscere la natura generalizzata – con le dovute sfumature in base a sesso, genere, classe, razza – delle molteplici inquietudini che ci assillano, oggetto di quel “segreto pubblico” per eccellenza di cui parla il collettivo britannico Plan C.

In un certo senso, il pensiero dell’ansia come problema privato ostacola fortemente il coinvolgimento e la partecipazione alla vita pubblica, alla cura degli altrə, all’azione politica e all’immaginazione dell’alternativa alla crisi socio-ecologica, di fatto assecondando le regole del tardo capitalismo incarnate e riprodotte, ad esempio, dalla narrativa dominante dell’Antropocene. Una narrativa da disfare che richiede la progressiva costituzione di una coscienza di classe ecologica e globale per ricomporre le fratture intenzionalmente create dal capitalismo e, al contempo, piantare i semi di narrazioni e pratiche contro-egemoniche che risveglino la vita in quella che De Sutter definisce era dell’anestesia.

Da una situazione in nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile” Mark Fisher, Realismo capitalista, p.152

Ulteriori letture:

Laurent De Sutter (2018), Narcocapitalismo. La vita nell’era dell’anestesia, Ombre Corte

Sarah-Jaquette Ray (2020), A field guide to climate anxiety, University of California Pressa

Stefania Barca (2020), Forces of reproduction, Cambridge University Press

Ph credit: blog.ecosia.org; www.psd.gov.sg; ocm.wiltshire.gov.uk; www.wired.com

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