La stanza buia dell’anima

In letteratura, tanto quanto al cinema e nelle serie TV, esiste un filone narrativo dedicato a quella che viene comunemente definita “perdita dell’innocenza”. Non sono veri e propri romanzi di formazione, ma storie che si concentrano sull’episodio, preciso e sconvolgente, che porta chi lo vive a sbattere la faccia contro la realtà, prendendo coscienza del fatto che l’epoca dei giochi spensierati dell’infanzia è finita per sempre. Spesso, a fare da sfondo al cambiamento, sono vicende dai contorni neri e orrorifici – si pensi allo Stephen King di Carrie o Stand by me, oppure alle sottili linee scure degli adolescenti dell’East Texas di Joe R. Lansdale –, altre volte l’incubo è tutto nella testa della voce narrante, come ne La settimana bianca di Emmanuel Carrère.

A questa categoria appartiene senza dubbio Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia, romanzo breve di Enrico Macioci di recente pubblicazione per TerraRossa Edizioni; un esperimento interessante, in bilico tra fiction e realtà, con il quale l’autore vuole fare uno scatto ulteriore, raccontando come, nei giorni compresi tra il 10 e il 13 giugno del 1981, non solo il protagonista del libro, ma l’intera popolazione italiana, persero contemporaneamente l’innocenza.

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Francesco ha sei anni quando la sua quotidianità viene sconvolta dalla scomparsa, improvvisa e misteriosa, del suo migliore amico Christian. Vivono in un piccolo quartiere di L’Aquila, un microcosmo circondato dalla campagna dove si conoscono quasi tutti, ma le ricerche del bambino scomparso arrancano, tra sospetti e buchi nell’acqua. Un carico emotivo già difficile da gestire per un adulto, figuriamoci per un ragazzino irrequieto che, se da una parte sogna di costruire una base spaziale per raggiungere gli alieni, dall’altra si trova ad affrontare i primi interrogativi esistenziali e una tensione famigliare che porterà i genitori al divorzio.

Francesco spera, piange, indaga, fa sogni ad occhi aperti e incubi a occhi chiusi, mentre tutte le televisioni del posto – così come quelle reali di quasi tutta Italia, in quel giugno del 1981 – sono costantemente sintonizzate sulla Rai, in diretta da Vermicino, a seguire i vani tentativi di salvataggio di un altro seienne sparito e divenuto tristemente famoso: quell’Alfredo Rampi che cade accidentalmente nel pozzo artesiano dove morirà tre giorni più tardi. Una tragedia lunga ed estenuante, documentata minuto per minuto, in una modalità all’epoca completamente nuova e dall’impatto mediatico paragonabile ai maggiori serial televisivi contemporanei, come Dallas o Dynasty. Contando su un lieto fine che purtroppo non è mai arrivato.

Alfredino Rampi

Macioci scrive in prima persona mescolando invenzione, autobiografia e cronaca, in un gioco di specchi che punta a riflettere la storia nella Storia: la sua voce è quella del Francesco di oggi, e il ricordo dei fatti di quarant’anni prima il tentativo di tracciare una sorta di bilancio suo e del Paese che lo circonda. Non c’è traccia della nostalgia malinconica che spesso si legge tra le righe di romanzi di questo genere, solo la consapevolezza della crescita come evento improvviso e brutale, che comporta la perdita della propria autenticità per recitare un ruolo, assolvere una funzione, seguire la corrente di un inesorabile imbarbarimento che, da personale, diventa sociale. Perché quando Macioci allarga lo zoom, e ricostruisce, parallelamente a quella di Francesco, la storia di Alfredino Rampi, dimostra come il modo in cui la televisione l’ha raccontata rappresenti una sorta di punto di non ritorno per la morale del pubblico italiano, che ormai da un pezzo aveva smesso di andare a nanna dopo Carosello. L’incidente di Vermicino fu solo il primo passo di un percorso morboso e voyeuristico che ha portato alla spettacolarizzazione del dolore, al godimento nello spiare le vite degli altri, alla Guerra del Golfo in diretta su Studio Aperto solo dieci anni più tardi e a quella in Ucraina che oggi seguiamo dai cellulari. Fino all’esperimento sociale del Grande Fratello, che diventa degrado culturale con i suoi infiniti surrogati. Un modo consolatorio, quello di specchiare le nostre esistenze nelle disgrazie e nei comportamenti altrui, per sentirci migliori o più fortunati, perché fondamentalmente insicuri e bisognosi di credere che il male toccherà sempre agli altri, che non saremo mai né vittime, né carnefici.

“Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia” è la preghiera che un Alfredino ormai delirante rivolgeva ai suoi soccorritori: un titolo che ci invita a guardarci dentro, e fare i conti con noi stessi e il nostro personale pozzo scuro. Perché perdere l’innocenza – sembra dirci l’autore – è un processo naturale e inevitabile, una crepa che si allarga dentro di noi e ci dilania mentre la ignoriamo o siamo convinti di tenerla sotto controllo. Così come quelle ben visibili per decenni sui muri dei palazzi di L’Aquila, prima che il terremoto li spazzasse via senza rimedio.

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