Pietro Ellero, della pena capitale e della tirannide borghese

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Io tuttavia persisto nella mia opinione che dopo la mia morte non si parlerà più di me

Così il giurista friulano Pietro Ellero (Pordenone 1833 – Roma 1933) aveva intuito il destino che sarebbe stato riservato al suo impegno politico e sociale, precursore di quella che oggi definiamo la coscienza e la tutela dei diritti umani. In epoca risorgimentale, egli lottò per l’unificazione del Regno d’Italia come fervente patriota:

può darsi che l’alba italica del Quarantotto, spuntata durante la mia adolescenza, e che la precoce lettura di qualche tragedia di Alfieri, di qualche vita di Plutarco e del Principe di Macchiavelli abbiano, allora, immensamente aggravato e reso incurabile il mio male.”

Un’elaborazione di pensiero e una partecipazione civile che non comportarono solo onorificenze accademiche (fu professore di filosofia del diritto e di diritto penale sia a Milano che a Bologna) ed istituzionali (divenne magistrato di Cassazione, e poi del Consiglio di Stato, infine Senatore dell’Italia unificata), ma che gli valsero, appena venticinquenne, anche una condanna per “perturbazione della pubblica tranquillità”, quando ancora la penisola era sotto la dominazione asburgica: questo perché egli si batté per l’abolizione della pena capitale sin da studente, dedicando a questa lotta tenace la tesi di laurea in giurisprudenza, discussa all’Università di Padova. Incriminato fu il passaggio in cui asserì che “la ragione ci appalesa la pena di morte inutile, amorale, ingiusta”. Ne rispose, ma non si fece impressionare e continuò la sua professione di fede fondando il Giornale per l’abolizione della pena di morte.

Con il Giornale, fondato nel 1861, l’Ellero realizzò con successo il proposito di “riunire in un campo franco valenti combattitori, italiani e stranieri, senz’accettazione di partiti e di scuole” (Manifesto dell’Archivio giuridico, in Arch. giur., I [1868], p. 11), intorno ad uno scopo reso particolarmente vivo ed attuale dalla recente realizzazione dell’Unità nazionale, che imponeva una reale unificazione legislativa per smussare le più eclatanti diversità tra gli ordinamenti e superare la soluzione, provvisoriamente adottata, di estendere la vigenza del codice sardo. Il Giornale si collegò con i principali movimenti europei avversi alla pena capitale, accogliendo contributi o stabilendo contatti con giuristi della statura di K. J. Mittermaier, Fr. v. Holtzendorff, Ch. Lucas, ed ebbe il merito di coordinare sforzi isolati rendendo tangibile l’esistenza di una vera e propria corrente abolizionista italiana, le cui sorti esso accompagnò per un triennio con attacchi decisi, sebbene non risolutivi, al sistema penale vigente, suscitando echi significativi nella concomitante discussione parlamentare. Al di là dei materiali scientifici, di diverso peso e di diversa qualità, che esso offriva unitamente a brevi novelle edificanti, il periodico rappresentò un luogo simbolico di difesa del valore della persona umana. Del resto l’intero dibattito sulla pena di morte aveva assunto in quegli anni valore simbolico: il problema, non appassionante per spessore tecnico-scientifico, era però essenziale nel suo significato generale, come discrimine per contrassegnare le opzioni etico-politiche di fondo dell’intero ordinamento penale. Com’è noto la discussione, che avrebbe concluso la sua lunga ed incerta parabola molto più tardi, si ritrasse per qualche tempo dalla ribalta politica. Parallelamente la direzione del Giornale ritenne di doversi accontentare, pur con grande amarezza, dei risultati morali che aveva conseguito. Nel 1865 un lungo Epilogo a firma del direttore, pubblicato nel fascicolo XII, chiudeva la terza ed ultima annata, mentre l’abolizione della pena capitale, sancita dalla Camera con una proposta di legge del 16 . marzo 1865, trovava nel voto contrario del Senato un ostacolo per il momento non superabile (dall’Enciclopedia Treccani).

Studioso engagé di primo piano, egli corse molti rischi, eppure, quando festeggiamo la Rinascenza ricordiamo enfaticamente l’epopea di Mazzini, la spedizione di Garibaldi, la tessitura strategica di Cavour, il codice penale liberale di Zanardelli, i romanzi e l’esilio di Victor Hugo; invece Pietro Ellero rimane figura, ancora oggi, per i più, sconosciuta.

La ragione di questo oblio dipende forse dalla sua decisione di rimanere distante dalle logiche del potere omologante? Secondo quanto Vincenzo Accattatis scrive nella prefazione a “La tirannide borghese” (Feltrinelli, 1978) la risposta è chenon vi è dubbio che la principale ragione per la quale il pensiero di Ellero è stato praticamente “dimenticato” è da vedere nel fatto che Ellero non è mai andato bene alla Sinistra per la parte reazionaria della sua riflessione e non è andato bene alla cultura ufficiale per la critica corrosiva che contiene nei confronti della borghesia. L’unico modo di “salvare” e “valorizzare” Ellero è, a nostro giudizio, quello di prenderlo come emblematica testimonianza del suo tempo (un tempo di acuta crisi di valori, di acuta crisi economico-politico-sociale). Ellero è la “coscienza critica” di tipo liberal-radicale degli anni Settanta”.

Oppure fu perché desiderò rimanere ai margini, preferendo al clamore della cronaca un’azione delicata e “di frontiera” come quella dell’insegnamento, della formazione dei giovani studenti in quell’Università che ancora, a dispetto di ogni detrattore, egli riteneva fucina di trasformazione e di idee all’avanguardia?

Voi scordate la cospirazione perpetua delle nostre università contro la tirannide; voi scordate, che ivi dentro maturammo col pensiero per i giorni, che poi ci arrisero; voi scordate, che lo squillo di rivolta primo si partiva dalla torre universitaria, e come di colà uscivano pur testé le legioni di studenti capitanate da’ loro maestri.”

È un’ipotesi, ma resta il fatto che “Ellero stesso era cosciente dell’oblio che lo aveva già avvolto negli ultimi anni della sua vita”, così si legge nel catalogo della mostra curata dalla ricercatrice, studiosa di manoscritti Rita De Tata nel 2011 in occasione del 150° anniversario dall’Unità d’Italia, per la Biblioteca Universitaria di Bologna (intervista). Sempre nel catalogo, si evidenzia che uno dei motivi per cui la dottoressa De Tata ha deciso di inventariare e valorizzare il Fondo Ellero – donato alla Biblioteca nel 1935 dal giurista bolognese Giuseppe Brini (allievo di Ellero) – dipende dalla volontà di riportare all’attenzione generale l’opera di quest’uomo di legge che “si contraddistinse sempre per il ‘far parte a sé’ e per la sua indipendenza di opinioni, caratteristiche che gli rendevano difficile aderire completamente ad una fazione”.

bub_biblioteca_universitaria_di_bolognaLa mostra in questione è stata esempio mirabile del valore dell’interdisciplinarità, ha permesso a tutti, soprattutto a studenti e studentesse di giurisprudenza, di colmare un’imperdonabile lacuna, facendo scoprire pagine della storia del diritto che non si incontrano durante il corso di studi, benché Pietro Ellero sia stato figura chiave in relazione ai grandi protagonisti del secolo XIX, come testimoniano preziosissimi carteggi autografi ed altri documenti personali (fondi speciali BUB).

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Statura ordinaria, viso tondo, capelli e occhi ‘castagni’, bocca e naso regolari”, così è descritto nel suo passaporto austriaco, Pietro Ellero molto probabilmente incontrò negli anni dell’università padovana Ippolito Nievo di due anni più grande di lui, iscritto ai suoi stessi corsi giuridici”. Differente fu la loro carriera, ma in comune ebbero anche i guai con la giustizia: Ippolito Nievo, infatti, fu chiamato in giudizio per vilipendio della Imperial Regia Gendarmeria a causa della sua novella “L’Avvocatino” (1856), ritratto di una società in declino dove la vocazione a “ciarlare” superava di gran lunga l’ambizione di “lavorare”. Immediati appaiono gli echi degli aforismi di Ellero raccolti nell’operetta moral-sarcastica “La tirannide borghese” (1879), dove si legge “Una sola qualità personale è mestieri pregiare alquanto, la furberia”. Entrambi crebbero che la “rivoluzione nazionale” non consistesse solo nell’unificazione delle regioni italiane, quanto piuttosto nell’integrazione delle varie classi sociali nell’organismo della nazione secondo rapporti di giustizia.

Questo era l’ideale risorgimentale che li animò e che poi li deluse, quando si resero conto che i primi decenni della politica italiana furono segnati dai compromessi e dalle ambiguità della dialettica parlamentare. Non a caso, nel 1886, Angelo Umiltà scriverà una lunga lettera ad Ellero tracciando un’amara analisi della situazione politica italiana, diagnosticando “un sempre più diffuso scollamento tra la politica ed i bisogni reali delle masse, di fatto escluse dall’esercizio della democrazia”.

victor_hugoL’amore per la giustizia e l’odio per la tirannide sono stati condivisi insieme a Carducci, Mazzini, Garibaldi. Da Ellero tutti trassero ispirazione e gli rivolsero parole incoraggiamento. Garibaldi, in una lettera, aggiunse: “pare incredibile che in questa terra eletta dove nacque e scrisse Beccaria, l’opinione del popolo non abbia ancora imposto a chi governa questo passo così necessario nella via del progresso e della umanità”. Grande ammirazione e pietro_ellero_fotoparole di ringraziamento gli pervennero anche da Victor Hugo, che si era esiliato nell’isola britannica di Guernsey. Il romanziere francese, che anche lontano dalla patria continuava la sua lotta contro la pena di morte, ringraziò Ellero, come un alleato, per i suoi “nobili sforzi”.

La questione della nazionalità; le fondamenta giuridiche della sovranità popolare; il valore della democrazia; il vagheggiamento di un’Unione PanEuropea; la necessità di uno Stato di diritto sono la vita di Pietro Ellero (sito ufficiale) e sono le stesse sfide di oggi, tra conflitti e disincanti, rimane il desiderio che possa anche “l’Italia nostra essere grande e felice!

Photocredit: www.aforismario.net 

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