Se un cavallo rivoluziona la televisione

Diciamolo subito, per sgomberare il campo da pregiudizi: se c’è una cosa da prendere maledettamente sul serio sono i cartoni animati. Bisogna affermarlo soprattutto qui, in Italia, quella nazione che li spaccia ancora come roba per bambini. Senza capire la differenza tra un film di Miyazaki e Peppa Pig.

I cartoni animati hanno portato freschezza e mordente nel mondo della serialità televisiva, anticipando molti dei toni, dei tic, delle soluzioni di tante serie odierne. Prendiamo i decani, l’inizio di tutto: i Simpson sono nati 31 anni fa, prima di Italia 90, nello stesso anno in cui Tozzi, Morandi e Ruggeri vincevano Sanremo con Si può dare di più. Se vi sembra assurdo, anacronistico, è perché quella dei Simpson è la stessa potenza che distingue i classici, è quella forza che rende una storia senza tempo.

Da MoviePlayer

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Le serie animate che sono venute dopo sono tutte più o meno in debito con loro, li richiamano per associazione o per antitesi: la comicità demenziale dei Griffin, l’umorismo acido di South Park, l’ironia lunare di Futurama. Futurama, creata come i Simpson da Matt Groening, è un primo tentativo di distanziarsi dal modello di episodio autoconclusivo creando una continuità. Anche il tono contiene accordi minori, momenti di commozione e scosse emotive che non ci aspetteremmo da un semplice cartone di intrattenimento. Ma l’intrattenimento, come i cartoni animati, va preso maledettamente sul serio.

Nel 2014 arriva su Netflix Bojack Horseman. Bojack è un cavallo antropomorfo che ha trovato il successo in una sitcom degli anni ‘90, Horsin’ around, ma è soprattutto una celebrità e un uomo in perenne decadenza, un cinico autodistruttivo, un misto di infantilismo e depressione. E uno stronzo, ovvio.

da Twitter

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La quinta stagione, messa in onda il 14 settembre 2018, presenta una puntata che rivoluziona completamente il concetto di serie animata e in generale di serialità, supera il confine del buon senso e del già fatto con un rilancio incredibile, la scommessa vinta di chi ha costruito bene il proprio arco narrativo e non si preoccupa di osare sempre di più.

Questa puntata è la 5×06, Free Churro. In questi giorni mi è capitato di fermare gli amici e dire soltanto “oh, la puntata 5×06?” e loro già avevano capito di cosa si trattava, senza specificare la serie o quello che volessi chiedere. È una cosa che ha fatto storia, e lo abbiamo capito senza la dovuta distanza temporale.

I 26 minuti della puntata sono da due monologhi. Il primo, brevissimo, è l’introduzione che anticipa la sigla: un flashback di Bojack Horseman che vediamo bambino impaurito davanti alle recriminazioni di Butterscotch Horseman, suo padre, romanziere fallito e alcolizzato. L’altro, che riempie gran parte della puntata, è il discorso funebre di Bojack al funerale della madre.

Ecco, già questo basterebbe per entrare nel Guinness dei primati, o quanto meno per fare la storia: che razza di cartone animato può ospitare un monologo di venti minuti? E il tutto fatto con due sole inquadrature, a scelta tra il solo Bojack e Bojack davanti alla bara? Come afferma giustamente Alan Sepinwall nel suo articolo per Rolling Stones, siamo nel territorio più lontano dal mondo dei cartoni animati, quello del teatro.

Il monologo di Bojack è un esempio di grandissima oratoria, fatta di riprese, citazioni, spostamenti di camera, cambi di tono. Ha la potenza del Giulio Cesare di William Shakespeare, di quel reiterato “E Bruto è un uomo d’onore” di un altro discorso funebre, quello che fa Marco Antonio dopo l’omicidio di Cesare.

 

Ma quello di BojacBojack quotek è tutt’altro che un elogio funebre. L’infanzia di Bojack è segnata da genitori terribili, la cui unica lezione è stata quella di essere solo e di non poter contare sull’affetto di nessuno. Il discorso funebre è quindi farcito da insulti, divagazioni, provocazioni, rimpianti di chi non è mai stato considerato né voluto bene, forse neanche messo a fuoco. È il confronto tra il churro gratis offerto da una cassiera gentile per consolarlo del lutto recente e dell’assoluta mancanza di gesti affettuosi da parte della madre. È insieme Svevo e Kafka, quello della Lettera al padre, ovviamente.

Un passo, il più bello, è un aneddoto, un esempio di vita quotidiana. 

Ecco una storia. Quand’ero ragazzo, recitai un brano comico per il talent show della scuola. C’era questa giacca figa che volevo mettere perché mi avrebbe fatto sembrare Albert Brooks. Per mesi risparmiai per questa giacca, ma quando finalmente racimolai abbastanza, andai al negozio ed era andata. L’avevano venduta a qualcun altro. Così, andai a casa e lo dissi a mia madre. Lei disse: «Ti sia da lezione. Questo succede se si desiderano cose». […] Ma poi, il giorno del talent show, mia madre aveva una sorpresa per me. Mi aveva comprato la giacca. Anche se non sapeva come dirlo, io sapevo significasse che mi amava. Ora, questa è una buona storia su mia madre. Non è vera, ma è una buona storia, giusto? L’ho rubata da un episodio di Maude che vidi quando ero bambino, quando lei parla del padre.

In mancanza di amore o quanto meno di un suo surrogato, la televisione è stata l’unica vera educazione sentimentale di Bojack. Quella stessa televisione fatta di grandi gesti per ricucire un rapporto, ravvedimenti improvvisi, quando ciò che è difficile è la costanza dell’affetto.

Bojack Horseman in questo episodio si dimostra un compendio dell’esistenza umana vista dal punto di vista peggiore, le memorie del sottosuolo al tempo di Hollywood. Avete ancora voglia di chiamarlo cartone animato?

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