IPCC Special Report – Ancora dodici anni per cambiare, poi sarà troppo tardi

Che non ci fosse più tempo lo si sospettava già, ma ora è arrivata anche la conferma. Il clima è cambiato e il riscaldamento globale avanza a una velocità tale che se da qui al 2030 le emissioni di gas a effetto serra non saranno ridotte di almeno il 45% rispetto a quelle del 2010, entro la fine di questo secolo la temperatura media globale raggiungerà facilmente (e supererà) i 2° di aumento rispetto a quella del periodo pre-industriale. Il che, tradotto, significa che i nostri stili di vita subiranno una trasformazione di cui ancora oggi ignoriamo la portata. L’ultimo Special Report dell’IPCC parla chiaro: le differenze tra un aumento di temperatura di un grado e mezzo a e uno di due sono abissali, con conseguenze catastrofiche (leggi irreversibili).

Ancora una volta il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici, costituito da decine e decine di scienziati provenienti da tutto il mondo, prova a mettere in guardia sugli impatti derivanti dall’aumento di CO2 e altri gas serra, sottolineando come il controllo di solo mezzo grado possa fare la differenza per la vita sulla Terra così come oggi la conosciamo. Gli scenari conseguenti a un aumento di 2°, infatti, condizioneranno il regolare svolgimento di moltissime attività ecosistemiche e, quindi, antropiche. A distanza di soli tre anni dallo “storico” Accordo di Parigi, dove la linea di condotta generale era decisamente meno stringente e già l’obiettivo dei 2° sembrava una gigantesca conquista per l’umanità, la climatologia sottolinea con ancora più incisività che le azioni di mitigazione messe in atto finora sono insufficienti e che per potenziare le capacità di adattamento servirà accelerare i tempi e incrementare gli investimenti in settori altamente strategici come quello energetico – elettrificazione e potenziamento dell’efficienza energetica – quello della pianificazione urbana e dell’uso del suolo e infine quello industriale attraverso un uso combinato di tecnologie e pratiche che prevedano anche l’avanzamento delle tecniche di rimozione di CO2 dall’atmosfera, ancora piuttosto rudimentali e soprattutto estremamente costose, per cui difficilmente accessibili. Anche se non dimentichiamo che la più semplice ed efficace tecnica di rimozione di CO2 rimane comunque la tutela del patrimonio forestale del nostro Pianeta: un migliore uso del suolo, un progressiva riforestazione e la preservazione dei polmoni verdi equivarrebbe a tagliare le emissioni di anidride carbonica del 18% entro il 2030, cioè un taglio probabilmente sufficiente a mantenere l’aumento di temperatura al di sotto dei due gradi rispetto alle temperature del periodo preindustriale (1850-1900). “Il futuro del clima del nostro pianeta è legato indissolubilmente al futuro delle sue foreste” scrive Stephen Leahy sul National Geographic.

Grande enfasi viene data anche alle differenze regionali tra le condizioni climatiche odierne e quelle che si avrebbero con un aumento di 1,5° e di 2°. L’Artico, ad esempio, si riscalda molto più dei tropici, la riduzione di precipitazioni nevose riduce la disponibilità di risorse idriche in molte comunità montane mentre l’acidificazione degli oceani che uccide le barriere coralline mette soprattutto a rischio la sussistenza delle popolazioni insulari. Nonostante vi siano ancora molte incertezze su quello che accadrà esattamente, le stime parlano di temperature più elevate sia terrestri che oceaniche, con un aumento di giorni caldi, di ondate di calore estreme più frequenti e di evidenti cambiamenti nel ciclo idrologico, con alluvioni in alcune zone e siccità in altre. L’innalzamento del livello dei mari, in particolare, desta molta preoccupazione specialmente per quelle centinaia di milioni di persone che vivono in zone costiere poco elevate: l’aumento previsto da qui al 2100, infatti, va dai trenta ai sessanta centimetri, senza calcolare quello che potrebbe succedere con il collasso della Groenlandia o lo scioglimento dell’Antartide. Limitare l’aumento delle temperature a un grado e mezzo aumenterebbe anche le possibilità e le capacità di adattamento di gran parte delle comunità costiere le quali, già oggi, devono combattere contro fenomeni di erosione, di salinizzazione delle falde acquifere e di danneggiamento delle infrastrutture. Tutti elementi strettamente connessi con macro aspetti quali la sicurezza idrica e alimentare, la povertà, le migrazioni e lo scoppio di conflitti.

Non è casuale, infatti, che buona parte del Report sia dedicata a mettere in luce la relazione tra le strategie di mitigazione dei cambiamenti climatici e il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Così come non è secondario il riferimento alla giustizia sociale e all’equità come prerequisiti per sviluppare percorsi di resilienza climatica che non lascino nessuno da parte, specialmente i più poveri e i più vulnerabili. Inoltre, per restare entro il grado e mezzo sarà indispensabile l’impegno collettivo nell’ottica di una reale cooperazione internazionale: dalle autorità nazionali alla società civile, dal settore privato alle comunità locali e indigene, sempre nel rispetto del principio delle responsabilità comuni ma differenziate. Insomma, gli sforzi per effettuare i radicali cambiamenti di cui abbiamo bisogno dovranno essere molti e soprattutto immediati e se abbiamo anche una sola possibilità di vincere la sfida climatica e di raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030, il momento per farlo è ora.

Photocredit: www.ipcc.ch, www.arpae.it, www.eco.ca, www.bcsdh.hu 

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