Ambiente, cultura e (im)mobilità umana in Asia Centrale – Intervista a Suzy Blondin dell’Università di Neuchâtel

Sempre più ricerche si concentrano sulla relazione tra cambiamenti climatici, ambientali e mobilità umana. Spesso, tuttavia, si parla senza avere una visione olistica di un fenomeno estremamente complesso. Pur trattandosi di una strategia di adattamento ambientale millenaria, la migrazione trae origine da un insieme di cause, non solo legate ai cambiamenti climatici. Il più delle volte, inoltre, per mancanza di mezzi o di volontà, lo spostamento semplicemente non ha luogo. Le cifre relative al numero di “migranti ambientali” sono spesso volutamente esagerate a livello mediatico e politico, creando inutili allarmisti e allontanandoci da una più profonda comprensione della realtà che lo circonda. Con quest’intervista proviamo a sfatare qualche mito, costruendo alcune basi per una riflessione più consapevole. Suzy Blondin, che ringrazio molto per aver accettato l’intervista, è una giovane dottoranda dell’Istituto di Geografia presso l’Università di Neuchâtel. Il suo progetto è legato allo studio delle diverse forme di mobilità umana nella valle di Bartang, una regione montuosa del Tajikistan, particolarmente esposta agli impatti del riscaldamento globale.

Ciao Suzy, innanzitutto grazie per aver accettato l’intervista! Poco più di un mese fa hai pubblicato il tuo primo articolo scientifico sulla rivista Central Asian Survey. Già dalle prime righe sottolinei che la regione dell’Asia Centrale è globalmente riconosciuta come hotspot climatico a causa di molteplici difficoltà legate al progressivo aumento delle temperature. Nonostante ciò, la regione continua a essere poco conosciuta sulla scena internazionale. Cos’è che ti ha spinto a lavorare su questa regione e quali sono gli impatti maggiormente evidenti dei cambiamenti climatici?
Effettivamente è vero, la regione è ancora in gran parte del tutto sconosciuta. Specialmente fino al 1991, cioè fino al termine del controllo sovietico, l’Asia centrale è rimasta particolarmente chiusa rispetto a ciò che vi era all’esterno, per cui non vi è una vera e propria tradizione di ricerca da parte di studiosi internazionali. Questo spiega la scarsa presenza di informazioni e di dati a disposizione, soprattutto per alcuni Stati come il Turkmenistan e l’Uzbekistan che risultano essere ancora oggi del tutto inaccessibili. Come ricercatrice, mi sono avvicinata a questa regione dopo un viaggio fatto qualche anno fa attraverso il quale ho visitato luoghi e conosciuto persone da cui sono rimasta affascinata. L’idea di scrivere una tesi di dottorato sulla questione delle migrazioni ambientali in Asia Centrale deriva anche dal fatto che, nonostante si tratti di una tematica di enorme portata soprattutto per gli anni a venire, dal punto di vista della letteratura e degli studi scientifici non vi è praticamente nulla a riguardo. Questo, a mio avviso, soprattutto poiché parliamo di un hotspot climatico, è un vuoto che occorre riempire. L’Asia centrale, infatti, come tutte le regioni di montagna sta già soffrendo per quanto riguarda lo scioglimento dei ghiacciai e poiché si tratta di una regione in gran parte arida, l’aumento delle temperature può facilmente portare a fenomeni di desertificazione più intensi. Oltre a questo, non dimentichiamo il contesto geopolitico: vi sono Stati come l’Uzbekistan e il Turkmenistan le cui risorse idriche sono estremamente limitate se non del tutto inesistenti; se sul lungo termine i ghiacciai dovessero sparire, le relazioni tra i diversi Stati diventerebbero estremamente instabili proprio per il controllo delle risorse naturali!

Per quanto riguarda il Tajikistan, che è il focus della tua ricerca, hai lavorato con alcune comunità situate nei pressi della valle di Bartang nell’altopiano desertico del Pamir. Qual è la realtà quotidiana di queste comunità montane che vivono da tempo in una delle zone più remote al mondo?
Ho scoperto questo angolo del Tajikistan sempre in qualità di turista e ne sono rimasta rimanendo profondamente colpita. Qui le popolazioni vivono piuttosto isolate e ad una altitudine compresa tra i 2000 e i 3000 metri in condizioni di estrema povertà: spesso, infatti, si dice che il Tajikistan sia il Paese più povero dell’Asia Centrale e che, a sua volta, la valle di Bartang sia la regione più povera del Tajikistan. Da qui è nata la mia ricerca, dal fatto di voler comprendere come una regione così povera e così esposta alle catastrofi naturali potesse fronteggiare le nuove sfide poste dai cambiamenti climatici globali. Inoltre, dal punto di vista della marginalizzazione, non vi è solo l’aspetto puramente geografico da considerare, ma anche quello socio-culturale e religiosi. Si tratta, infatti, di una regione la cui popolazione è a maggioranza sciita ismaeliana, mentre la popolazione del Tajikistan è a maggioranza sunnita. Tuttavia, se a livello nazionale questa marginalizzazione è a volte accompagnata da atti discriminatori, a livello internazionale non vi è lo stesso livello di isolamento. Gli Ismaeliani, infatti, hanno un capo spirituale che risiede in Europa e che si trova a capo di una fondazione umanitaria che opera per migliorare le condizioni di vita in tale regione. Marginalizzazione interna e apertura internazionale, dunque, vanno di pari passo e il mio interesse sta nel voler comprendere come questi due aspetti influenzino il desiderio delle persone di partire o di restare. Nel contesto di studi inerenti alla mobilità umana, infatti, non bisogna tralasciare anche l’aspetto relativo all’immobilità.

Quindi, nonostante la migrazione sia uno dei principali strumenti di adattamento a tutta una serie di fattori, non solo di carattere ambientale, non sempre è possibile partire e soprattutto non sempre vi è il desiderio di allontanarsi dalla propria terra. Da ciò che emerge dalle tue ricerche in relazione alle differenti dinamiche di mobilità, quali sono i differenti aspetti che influenzano la partenza o l’immobilità?
In relazione al Tajikistan, occorre sicuramente sottolineare il fatto che la popolazione è estremamente mobile. Tra le comunità della valle di Bartang, la migrazione sia interna sia internazionale è assai frequente. Specialmente gli uomini partono verso la capitale Dušanbe o per lavorare in Russia nell’ambito del settore dell’edilizia. Alcuni rimangono via qualche anno, altri per tutta la vita ma il legame con il luogo di origine continua a rimanere forte. Da quello che ho potuto osservare la relazione con la propria terra, con la propria valle è qualcosa di così profondo che, nonostante le difficoltà quotidiane, la maggior parte delle persone sceglie di rimanere. Molte di queste, in particolare, non hanno una buona opinione della vita in città e sanno che specialmente in Russia non mancano episodi di discriminazione e di razzismo nei confronti degli abitanti del Pamir e del Tajikistan in generale. L’attaccamento alla propria comunità e al proprio territorio è una componente fondamentale che influenza moltissimo gli spostamenti in questa regione. Inoltre, occorre sottolineare che intorno agli anni ’50, dunque in epoca sovietica, sono state messe in atto politiche di spostamento forzato dalle montagne verso le pianure essenzialmente per ragioni di tipo economico (lavorazione del cotone, lavoro in fabbrica). Almeno due o tre villaggi situati nella valle di Bartang sono stati forzatamente trasferiti in pianura, senza possibilità di scelta e in condizioni di accoglienza così precarie che molti bambini e anziani sono morti a causa delle elevate temperature e di malattie. Sebbene dopo qualche anno le comunità di questi villaggi abbiano ottenuto il permesso di ritornare in montagna, questo episodio ha lasciato una profonda ferita nell’animo delle persone, un trauma collettivo che probabilmente spiega perché molti preferiscano rimanere dove sono.

Riguardo alla problematica dei cambiamenti climatici e dei relativi impatti, qual è il livello di consapevolezza da parte di tali comunità? Rispetto al degrado ambientale dovuto soprattutto allo scioglimento dei ghiacciai, secondo te l’idea dello spostamento inizia a radicarsi come qualcosa di inevitabile in un futuro non più così lontano?
In rapporto al livello di consapevolezza, devo dire che come accade un po’ dappertutto altrove, vi sono molte differenze a livello individuale. Vi sono persone particolarmente coscienti della gravità del problema e di tutto ciò che potrebbe accadere ma ve ne sono altre un po’ più scettiche. Altre ancora, invece, sottolineano i lati positivi dell’aumento delle temperature: poiché fa più caldo, è possibile coltivare delle specie che prima non crescevano sopra i 3000 metri, come i pomodori. In generale, tuttavia, la sensazione che si ha dai discorsi che ho avuto con la gente del posto, è quella di dire “attendiamo e vediamo ciò che succederà”. L’idea di doversi spostare in massa non è quasi masi presa in considerazione, soprattutto dai più anziani che hanno vissuto tutta la loro vita nello stesso posto. Per quanto riguarda i giovani, il discorso inerente alla mobilità è un po’ diverso e la possibilità di doversi spostare in futuro non è poi qualcosa di così inimmaginabile.

E a livello politico qual è il peso dell’impegno da parte delle differenti istituzioni per affrontare i cambiamenti ambientali presenti e futuri?
Da ciò che ho potuto osservare, lo Stato è spesso assente, lontano da un punto di vista geografico, ma non solo. Non posso dire che vi siano delle importanti azioni a livello di lotta ai cambiamenti climatici. Vi sono altri organismi internazionali come l’OIM che lavorano soprattutto sull’aspetto della migrazione come forma di adattamento, ma di certo l’eredità degli spostamenti forzati del passato non è di grande aiuto. Per fare un esempio, volendo citare un caso di catastrofe ambientale pur non direttamente legata al clima, a fine 2015 la regione è stata interessata da un forte terremoto che ha distrutto interi villaggi. In quest’occasione, il Presidente della Repubblica si è recato fisicamente sul luogo del disastro proponendo alla popolazione l’eventualità di potersi reinstallare a qualche decina di chilometri di distanza. Beh, in questo caso, tutti hanno rifiutato nonostante vi fosse la possibilità di avere migliori condizioni di vita, il che dimostra ancora una volta come il discorso sull’immobilità non sia affatto secondario. Ritornando alla presenza di organismi e istituzioni, molte attività legate alla gestione del rischio ambientale sono portate avanti da associazioni e ONG locali e internazionali, tra cui l’associazione umanitaria di cui parlavamo prima (Aga Khan Development Network) che lavora specialmente al fine di implementare le possibilità di adattamento a livello prettamente locale.

Per terminare ed entrare un po’ più nel merito dei tuoi metodi di ricerca, come lavori sul campo e come hai affrontato l’ostacolo linguistico? Come hai trovato l’accoglienza da parte delle comunità con cui lavori?
Riguardo ai metodi, possiamo parlare più che altro di metodi etnografici qualitativi che mi hanno permesso, grazie ad un’osservazione partecipante, di entrare a far parte della quotidianità delle famiglie e delle comunità con cui sono a contatto. Anche l’assenza di strutture ricettive di tipo turistico è un aspetto che aiuta molto l’immersione nella vita delle persone con cui mi relaziono. Interessandomi anche alle modalità con cui le persone di spostano in assenza di infrastrutture particolarmente efficienti, mi piace viaggiare con loro sia su quelli che possiamo chiamare “taxi collettivi”, delle jeep con 6 o 7 posti, sia a piedi. Questo mi consente di capire come l’isolamento venga percepito, vissuto e superato, un aspetto che ho deciso di analizzare anche attraverso il la registrazione di brevi video. Per quanto riguarda la lingua, invece, è da qualche anno che ho iniziato a studiare il Persiano, la prima lingua parlata in Tajikistan e questo mi aiuta nelle conversazioni di tutti i giorni. Oltre a questo, ho scelto di lavorare insieme ad un assistente di ricerca che mi aiuta nella traduzione e con cui riesco ad accedere più facilmente ai dati di cui ho bisogno. Spesso le persone delle comunità con cui ho a che fare mi reputano semplicemente una sua amica, il che rende il contesto di lavoro molto più intimo e rilassato. Inoltre, quando si fa della ricerca, penso sia sempre importante capire come i nostri studi possano avere degli impatti positivi sulle comunità con cui si lavora e il fatto di collaborare con una persona del posto, fa sì che questa possa divenire un prezioso intermediario per il trasferimento dei frutti della ricerca verso la sua comunità. In particolare, le comunità con cui lavoro, sono sempre state molto accoglienti e contente di vedere che qualcuno si interessi alla loro storia e alla condivisione della loro realtà. Ho potuto notare come vi sia una forte tradizione di ospitalità e ne ho potuto beneficiare. Anche nei confronti del turismo internazionale, c’è una crescente apertura. Spesso mi sento dire: “racconta la nostra storia, racconta di quant’è bello il nostro Paese!”. Pur trattandosi di una piccola comunità, il desiderio di aprirsi al mondo è grande!

Grazie per l’interessante chiacchierata e buon proseguimento con il tuo progetto!

Photocredit: www.mergili.at, www.gov.uk 

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