Intervista a Nadia Terranova – Diciamo davvero addio ai fantasmi?

Agosto è quel mese in cui per un po’ ci lasciamo alle spalle la sveglia presto al mattino, la frenesia e gli impegni che ci sommergono. È quel mese in cui stacchiamo da tutto per ricaricarci, riflettere e prepararci a ripartire. Quale modo migliore per ricominciare se non dedicandoci a quello che più amiamo: la cultura?Come saprete quest’anno siamo stati media partner di Monterosa racconta, una rassegna letteraria – arrivata alla sua terza edizione – che si tiene annualmente tra le valli del Monte Rosa. Il 3 agosto, siamo partite in direzione Val D’Ayas per seguire gli incontri di quel giorno e intervistare Nadia Terranova, scrittrice siciliana molto prolifica, a proposito di Addio fantasmi (Einaudi 2018), ma non solo…
Addio fantasmi è un romanzo breve e intenso: la protagonista, Ida Laquidara, torna a Messina, sua città natale, perché la madre ha deciso di ristrutturare la casa di famiglia che vuole mettere in vendita. Tornare, per Ida, non è così facile come sembra: gli oggetti, i due mari, la casa saranno motivo di riflessione e di liberazione. Un romanzo davvero toccante che si è aggiudicato diversi premi (Premio Martoglio, Premio Subiaco Città del Libro, Premio Alassio Centolibri 2019) e che è arrivato tra i cinque romanzi finalisti al Premio Strega 2019. L’intervista a Nadia ci ha regalato emozioni forti, per questo la ringraziamo di cuore.

Per scrivere questo romanzo ci hai messo due anni e mezzo, se non sbagliamo. È un romanzo intimistico e profondo. Quanto è stato difficile per te scriverlo?
È stato molto difficile, ma è anche una cosa che secondo me vale la pena fare quando si vuole scrivere. Non sono mai alla ricerca di scritture facili, ovviamente la scrittura è un’occasione conoscitiva di sé e anche del mondo perché, per quanto possa essere intimista un romanzo, la conoscenza di sé attraverso la letteratura è conoscenza del mondo perché ti accorgi, quando tocchi qualcosa di molto intimo, di avere toccato qualcosa di universale e quindi, in realtà, secondo me quello dell’ombelicale è un finto problema nel senso che quando riesci veramente a raccontare dentro l’ombelico, non intorno, allora quel dentro riguarda tutti. E viceversa quando parti con una volontà conoscitiva, esplorativa del mondo veramente profonda, a un certo punto ti guardi intorno e credi di raccontare un romanzo storico, un romanzo fantascientifico e, invece, ti accorgi di quanto stai conoscendo te stesso attraverso quelle storie. Un po’ come sentivamo Le mille e una notte o il mito, quelle pulsioni, alla fine, parlavano di noi. Per me la ricerca della scrittura è sempre ricerca di profondità e di messa in difficoltà, soprattutto di me stessa. Mi sento a disagio quando scrivo, mi vergogno, mi sento profondamente in imbarazzo, mi chiedo continuamente se ce la faccio a scrivere qualcosa di così doloroso però io riesco a scrivere solo così. È l’unica cosa per cui valga la pena tentare, magari anche fallire… però tentare.

Hai suddiviso il romanzo in tre parti: «Il nome», «La voce», «Il corpo». Abbiamo poi ritrovato queste tre parole in una frase: «Vivo o morto, mio padre torna a casa, ha di nuovo una voce, un corpo, un nome. Riflettendoci sono le “cose” che Sebastiano Laquidara ha perso perché esiste e basta, vive da automa. Allo stesso tempo, anche Ida ha perso le stesse cose secondo noi. Cosa ne pensi?
All’inizio, quando ho scritto la prima stesura, i titoli erano «Il nome di mio padre», «La voce di mio padre», «Il corpo di mio padre». Poi, quando ho fatto la seconda stesura, mi sono detta: «Ma non sono solo del padre, sono anche di Ida, e forse del lettore e anche degli altri personaggi che si interrogano».
Perché è vero che il nome del padre viene detto alla fine del primo capitolo, ma anche il nome di Ida viene fuori soltanto quando lei riesce a chiamare il padre e a scrivere il necrologio con la penna verde sulla panchina, lì noi scopriamo che si chiama Ida Laquidara. Il corpo… è vero, erano riflessioni sul corpo del padre, anticipate dal sogno in cui lei lo dissotterra, però poi tutta la seconda parte è in realtà una riflessione sul corpo di Ida, sulla sessualità, sull’essere diventata grande senza un padre. E anche la voce, lei ritrova la voce del padre però lei è una donna che scrive e che scrive per una voce altrui, che ha una sua voce di scrittura che è la voce che parla ossessivamente per tutto il libro, però in realtà non ha mai voce. Parla poco con gli altri e non parla mai in radio, quindi dati questi aspetti, ho tolto il «di mio padre» dai tre capitoli e ho lasciato soltanto la tripartizione.

A un certo punto Ida dice che se il padre ha scelto il mare, quello è l’elemento attraverso cui avrebbe parlato loro. Fin da quando lui è andato via in casa c’è umidità, i vicini hanno alzato il muro di 3 centimetri e per questo piove dentro la casa di Ida. Perché hai scelto questo elemento?
Mi è sembrato che due donne sole avessero la possibilità e la capacità di andare avanti e anche di mimare di far finta che l’assenza del padre non ci fosse, di mimare una sorta di felicità, quasi sempre. Anche con sforzo, le passeggiate in macchina, il far finta di essere una famiglia come le altre, l’orgoglio, la casa, persino la casa che cadeva a pezzi… però ho immaginato che tutto si arenasse di fronte ai problemi di idraulica.
Questa cosa mi è sembrata molto simbolica, dell’acqua come elemento maschile più che femminile perché di fronte ai problemi di idraulica serve un maschio. Non è vero, naturalmente, la parte femminista di me mi dice che non è così ed è sicuramente così, però nell’immaginario simbolico in realtà di fronte a un allagamento, ai tubi, all’umidità, serve la forza del maschio riparatrice e protettrice. E mi sono detta: «Perché l’acqua è donna? L’acqua è paterna».
Ida e la madre possono far tutto, possono comprare i mobili, possono fare la revisione della macchina, però se si allaga casa e se non esce acqua dal rubinetto in questo caso c’è bisogno del padre che in qualche modo riesce a risolverla. E poi ho scelto quest’elemento perché mi sembrava che l’acqua fosse stata quasi sempre vista dalla letteratura come un elemento positivo. Il mare ha sempre questa funzione conciliatrice e quando non ce l’ha, è il contrario, è la tempesta. O è Moby Dick, il lato oscuro, oppure è il liquido amniotico, è materna. E invece l’acqua ha tremila sfumature diverse: l’acqua può essere insidiosa, può essere pervasiva. L’acqua nelle scarpe è il fastidio, non è né una tempesta, né una conciliazione, è un fastidio. E io volevo analizzare questo, tutto il ventaglio che c’era tra il bene e il male dell’acqua.

Citi i miti dello Stretto e qui ci ricolleghiamo soprattutto al tuo libro per Bompiani, Omero è stato qui. Quanto forte è il legame con la sua terra per un siciliano?
Io penso che siciliani si diventa. Penso sempre a Sciascia che quando gli si chiedeva «Come si diventa siciliani?», rispondeva «Con difficoltà» ed è vero perché non è mai facile essere siciliani, non è una cosa immediata. Mi sono accorta nella mia esperienza personale di essere diventata siciliana quando la Sicilia è diventata una scelta letteraria prima ancora che personale. Nel momento in cui scrivevo, da persona che se n’era andata fisicamente, anche se non recidendo mai legami, conservando la casa, tornando spesso, però comunque da persona che aveva deciso di mettere il centro altrove, mi tornava qualcosa che non era nostalgia perché la nostalgia ha un che di passatista.
La nostalgia è un vagheggiamento di un mondo che non hai più e in cui non vuoi veramente tornare; invece la nostalgia letteraria ha più a che fare con l’invenzione che con il ritorno. Quindi quando mi sono accorta che nelle cose che scrivevo la Sicilia affiorava sempre di più, anche se io non lo avevo deciso, sempre di più io dovevo ammetterne di esserne costituita perché l’ultimo libro che tu hai citato, Omero è stato qui, è proprio un’ammissione anche con me stessa. Come a dire «Io di questa cosa sono fatta, non posso negarlo». L’ho mascherata, prima ne Gli anni al contrario, in cui Messina era uno sfondo, poi è diventata un personaggio. Devo ammettere che questa cosa qui io ce l’ho nel dna però non è così lineare. La nascita è casuale, vivere in un posto è casuale. Io fino a venticinque anni vivevo a Messina ma non avevo nessuna consapevolezza vera di essere messinese. Vivevo a Messina con la cecità dei provinciali, sono una provinciale e resto tale. Però la lontananza mi ha aiutato a poterla raccontare quella provincia: se fossi rimasta lì l’avrei raccontata dall’interno e mi sarebbe sfuggita tutta la sua universalità, mi sarebbero rimasti addosso i tic della provincia. E, invece, ce li ho ancora addosso, però ho imparato a vederli.

Capita quando uno si trasferisce, ne parlavamo proprio l’altro giorno…
Capita e tanto, questa è la caratteristica degli espatriati. È vero che c’è quest’aspetto negativo fortemente che è un marchio molto forte per cui per i messinesi non sei più di Messina perché comunque te ne sei andato, e quindi, anzi, c’è persino qualcuno – in mezzo a tanti che sono contenti che parlo di Messina, anche orgogliosi – che dice «Vabbè tu ne parli ma in fondo tu non sei più una messinese, te ne sei andata».
E dall’altra parte, ovunque tu stia, a Roma o da qualsiasi altra parte, sei comunque “la messinese”. Quindi sei in questa zona che voi conoscete bene. (redattrici fuorisede da dieci anni, n.d.r) Però in questa cosa che sembra negativa perché uno magari pensa a una persona “senza identità”, c’è in realtà tantissima possibilità. Nell’essere una messinese anzi una strettese apolide in questo momento vedo più la possibilità che il limite, mi dispiace per chi collega l’identità al non essere andati mai via da un posto perché in realtà l’identità è una scelta. Bufalino non si è mai mosso da Comiso e va bene, era un meraviglioso gigantesco e grandissimo scrittore; ma meraviglioso, gigantesco e grandissimo scrittore era anche Sciascia che invece viveva tra Roma e Racalmuto alla fine. E non era meno racalmutese nelle sue avventure romane. Ercole Patti, la stessa cosa, Brancati… Comunque la maggior parte degli scrittori siciliani, tranne qualcuno, si è sempre spostata. Anzi, io credo che Sciascia non avrebbe avuto quella lucidità sulla mafia se non se ne fosse andato.

Ida e la madre a un certo punto litigano e poi l’indomani la madre le dice che le ha comprato la carne tritata e gliel’ha fatta in bianco, come piace a lei. Invece di affrontare la perdita o meglio la scomparsa del marito e del padre, preferiscono tacere. Quanto il dolore è silenzio?
Tanto. Il dolore è evitare di parlare delle cose, nel momento in cui se ne parla non è di meno, però c’è un’alfabetizzazione che corrisponde sempre a un passo avanti. Nel momento in cui ancora non si parla è uno stare e mi fa anche molta tenerezza perché non è che se ti è successo una volta, poi impari e lo rifai. La verità è che un trauma, quand’è improvviso, è talmente incredibile che passi tantissimo tempo a capire che è successo e soltanto dopo puoi dire «forse è successa una cosa che posso raccontare», ma per molto tempo sei frastornato. Il vero dolore, quello di quando non si scrive, di quando non si parla, è muto. Non dovrebbe, però succede.

Ida scrive il nome del padre su una panchina, come per dargli una sepoltura. E anche alla fine fa un gesto per provare a chiudere col passato, come se il ritorno a casa le avesse insegnato a lasciare andare. Ma secondo te si riesce a dire addio ai fantasmi?
Secondo me no e infatti diciamo che su questa parola, “addio”, potremmo parlare tanto perché secondo me è una rielaborazione del dialogo che si continua ad avere con i fantasmi. E poi questo gesto della scatola rossa, in realtà, non è un addio, anzi è dare una tomba. Come a dire «Qua posso venire a piangere», quindi è forse l’inizio del vero dolore, di quello che è stato muto, però ha bisogno di un luogo, lei non si libera della scatola. È come se si dicesse «Gli altri vanno al cimitero e io verrò qui, nel mezzo di questi due mari e di queste due terre, e qui, in questo punto, avrò una tomba.» È l’inizio di un percorso nuovo dello stesso dolore, ma non è un vero addio.

Cristina Catanese e Paola D’Aulerio

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