Sara Micello Resti

Resti

di Sara Micello

 

Per molto tempo ho pensato al mio amico e ai suoi pezzi di carne sull’asfalto. Una parte di me avrebbe voluto vedere come si era ridotto. L’altra parte, invece, pregava.

Il fatto è che quando è successo, eravamo dei ragazzini. Le sere d’estate ci davamo appuntamento sotto i portici del paese, e da lì ci spostavamo tutti insieme nella villa comunale. La villa aveva una recinzione al centro, che circondava delle siepi. Tutt’intorno, crescevano degli alberi e c’erano delle panchine, noi stavamo su una di queste. Eravamo un gruppo numeroso, perciò qualcuno restava in piedi, oppure si sedeva a terra, o si appoggiava alla recinzione. Non facevamo grandi cose, ma comunque passavamo il tempo. Qualcuno arrivava in coppia, c’era chi aveva perso il padre o i genitori si erano separati, chi voleva starsene per i fatti suoi ed era arrabbiato. Più tardi arrivavano gli altri, era un continuo viavai, da lontano si sentivano le sgasate dei motorini.

Ogni tanto noi ragazze facevamo il giro della villa, e sapevamo fino a dove potevamo spingerci. Qualcuno ci chiamava per dirci che eravamo belle, noi ci esaltavamo anche se non avremmo dovuto.

La nostra carne vibrava, eravamo tutti così elettrizzati e freschi. Era come se dentro di noi avessimo delle gemme preziose, e anche i grandi vedevano la nostra luce.

 

Spesso i grandi stavano al bar sotto i portici e ci guardavano. A noi questo dava fastidio, perché ci muovevamo come loro avrebbero voluto. Se non ci avessero guardati, lo stesso ci saremmo mossi bene. Noi non cercavamo rogne, ed era difficile che ci allontanassimo dalla villa, o che ci separassimo e fossimo tutti divisi.

 

Quella notte, al pronto soccorso del nostro paese, non abbiamo trovato il mio amico, ma un altro di noi: quando è uscito dall’ambulatorio, aveva i jeans a brandelli, la maglietta nera portava delle chiazze più scure, e trascinava la gamba, come se fosse scampato a una guerra. Diceva di avere fatto un volo pazzesco ed era finito in un burrone pieno di sterpaglie che lo avevano graffiato tutto, e se non fosse stato per un paio di altri nostri amici che erano arrivati poco dopo, non avrebbe saputo cosa fare. Era scosso, e noi continuavamo a guardare i suoi vestiti luridi. Faceva freddo, ed è possibile che a un certo punto siano arrivati anche i nostri genitori, che continuavano a guardarci come se volessero darci una mano. Facevamo passaparola di tutte le cose che scoprivamo, e qualcuno disse che il mio amico era finito in coma. A noi non sembrava una cosa tanto grave, come lo sarebbe stata se avessimo guardato i nostri genitori.

 

Doveva essersi rotto qualcosa, doveva essere caduto, perché qualcuno parlava di pezzi di carne sull’asfalto. Non so proprio che cosa abbia pensato, e mi dispiace che sia rimasto solo.

Il mio amico era magro. I vestiti gli cascavano di dosso, si tirava sempre su i pantaloni, che dopo un attimo tornavano a com’erano, e si intravedevano i boxer sul suo piccolo sedere. Aveva i capelli corti e appuntiti e portava l’apparecchio ai denti. Era un tipo sveglio ed era difficile tenerlo a bada.

Non possiamo ricordarci tutto per filo e per segno, e anzi è possibile che ricordiamo cose diverse, ma una volta, in quella settimana, abbiamo saputo dai dottori che il suo cuore aveva battuto più forte, ed era successo quando gli avevano detto che nella stanza era arrivata sua madre.

Per il resto, non avevamo granché voglia di parlare, e la villa era silenziosa. Le giornate scivolavano l’una nell’altra e noi stavamo insieme, senza dirci grandi cose. Quelle che ci dicevamo erano essenziali, del tipo «A che ora andiamo domani?», «Passiamo a prendervi?», «Novità?», e alla fine: «Hai saputo?».

C’è un episodio di una serata in villa, molto tempo prima, in cui siamo io e il mio amico. Vorrei ricordare con tutta me stessa che cosa mi disse quella sera, ma era arrabbiato, e mi parlava come se volesse salvarmi.

Al suo funerale, noi ragazze abbiamo portato i fasci di fiori e qualcuno è svenuto perché eravamo stanchi. Dopo ci siamo riposati, e abbiamo scritto delle frasi su un cartellone e sulle pareti di un vecchio ripostiglio, in paese – lo chiamavamo “Il locale” – che apparteneva a uno di noi e dove ora passavamo il tempo. Anche qui era un continuo viavai, e noi ci sentivamo instabili, selvaggi. Quelle giornate erano sospese, come se noi fossimo ombre. Ci sentivamo in imbarazzo e stavamo attenti a non fare rumore perché ci sembrava che dovessimo portare rispetto. Era difficile che qualcuno arrivasse al locale gridando o sbattendo la porta. Parlavamo a bassa voce e anche i gesti che ci scambiavamo erano composti, ci sorridevamo per niente e ci davamo in continuazione pacche sulla spalla. Anche i più sfrontati di noi sapevano come doversi comportare. Ci sentivamo distrutti, nel senso che era come se ci avessero abbattuto. A volte qualcuno scoppiava a piangere, il che ci ripiombava nello sconforto. Abbracciavamo chi piangeva e aspettavamo che passasse. Ma sapevamo che, subito dopo, avremmo dovuto ricominciare tutto da capo.

 

Potevamo fare branco, ma potevamo anche non farlo, ormai era la stessa cosa. Eravamo sciolti, potevamo anche restare da soli, perché è così che ci sentivamo. Sentivamo il buio che stava scendendo, ed era pesante. Eravamo un branco di ragazzini tra i quattordici e i sedici anni e cominciavamo a sentire il buio. Lì non potevamo sapere che cosa fosse davvero, e non era soltanto per quello che era successo al mio amico. Ci capitava di sognarlo, di sognare lui e la sua famiglia. Pensavamo a dov’era, a come poteva essersi ridotto, e ci vergognavamo di questi pensieri, perché non volevamo dirci la verità. Questo ci provocava repulsione, non lo accettavamo. Ma quel buio che sentivamo era l’inizio, ancora non capivamo che sarebbe successo anche a noi.

 

Quello che ci spaventava era tornare a casa, la sera, e superare la notte. Eravamo troppo piccoli per poterla superare, e non volevamo che i grandi ci toccassero per superarla insieme.

Forse è successo anche a loro, questo fatto di andare avanti negli anni e di sentirsi fragili. Forse tutti noi ci sentiamo fragili, come se le cose che abbiamo potessero andarsene. La notte continua a spaventarci perché è il posto in cui ci fermiamo, e non sappiamo se, svegliandoci, ritroveremo le nostre cose, se sarà tutto in ordine o se non ci sarà più niente. Forse a tutti noi capita di sentire il buio che avanza, e sembra una persona, proprio dietro di noi. Sembra che voglia fare qualcosa, comandare, farci impressione, e a volte succede, perché è davvero insistente. Non so se tutti sentiamo la stessa cosa, forse sì.

Una sera, qualche tempo fa, ero in macchina con una mia amica, e tornavamo da una festa. Mentre andavamo sulla strada, sentivo il buio che mi aveva già preso, e mi stava cambiando, stavo diventando qualcosa. La mia amica se n’è accorta, perciò ha cominciato a chiedermi se andasse tutto bene. «Va tutto bene?», diceva, e mi guardava. Io guardavo la strada e ricordo di aver pianto così tanto e senza smettere, e la mia amica continuava a ripetermi: «Succede anche a me. Tornare a casa, la sera, e sentirsi così vuota».

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