Antropocene

Antropocene, agricoltura e paesaggio. Politiche per ripensare il territorio

Il 2019 è stato l’anno in cui la questione ambientale ha trovato spazio all’interno del dibattito pubblico, fosse anche per il caso Greta Thunberg, che ha fatto da cassa di risonanza agli allarmi lanciati negli anni dalle organizzazioni scientifiche e ambientaliste, accendendo i riflettori sull’emergenza climatica e sulla necessità di intensificare le azioni per contrastarla.

Purtroppo, il vertice sul cambiamento climatico di New York (settembre 2019) o la Cop 25 di Madrid (dicembre 2019) hanno portato risultati poco soddisfacenti, ma l’incremento dell’attenzione da parte della società verso temi un tempo di nicchia, quali rapporto uomo-ambiente, sostenibilità, ecologia, biodiversità e biosfera, può essere considerato un positivo punto di partenza, visto che queste parole fanno ormai parte di un condiviso orizzonte culturale.

Capita in questi casi che il lessico degli addetti ai lavori travasi nella lingua d’uso comune, diluendo il suo preciso significato in favore di una bontà o un interesse comunicativo. Penso al termine Spread, mutuato dall’economia e diventato un cavallo di battaglia politico o al più recente Antropocene, termine in relazione con la questione climatica e ambientale, punto nodale di un dibattito aperto all’interno della geologia, e tematica di produzione culturale, come ben rappresentano mostre fotografiche, documentari, articoli e rubriche su riviste divulgative. C’è persino una newsletter e, naturalmente, libri.

Con Antropocene identifichiamo “l’arco temporale nel quale le attività umane sono cresciute attraverso un rapporto sempre più squilibrato tra necessità e risorse naturali disponibili”, sintetizza Giuseppe Barbera, ordinario di colture arboree dell’Università di Palermo e autore di Antropocene, agricoltura e paesaggio. Considerazioni a margine di un viaggio in Cina, edito da Aboca Edizioni – ramo editoriale dell’omonima azienda toscana, impegnato nel diffonderne i valori attraverso saggi specialistici, opere divulgative, e romanzi.

Non si tratta di un’era geologica ufficiale, successiva all’Olocene (l’attuale era, iniziata circa 12 mila anni fa, al termine dell’ultima glaciazione), ma di una proposta in tal senso formalizzata dal chimico Paul Crutzen negli anni 2000 riprendendo il neologismo che combina i termini greci anthropos (umano) e cene (nuovo), usato per la prima volta del biologo Eugene F. Stoermer negli anni ’80, per identificare appunto l’epoca in cui le attività umane hanno influenzato e alterato l’equilibrio territoriale e climatico della terra.

In attesa che la comunità scientifica confermi o meno il passaggio e, in caso, decreti la data di inizio (1945, col lancio della bomba atomica; 1784, con la rivoluzione industriale; 1492, con la scoperta dell’America; o ancora più indietro sino all’invenzione dell’agricoltura), il dibattito sull’Antropocene si è spostato su un piano di natura etica, ed è stato fatto proprio sia dalla politica che dall’arte, a dimostrazione di come la riflessione debba includere, come sottolinea Barbera, il “confronto tra saperi diversi”, appartenenti sia alle scienze fisiche che alle scienze umane.

Il libro, oltre a essere un utile compendio per riassumere le questioni di contesto senza la pretesa di sbrogliarle, amplia la visione a uno sguardo d’insieme, sistemico, del rapporto uomo-territorio. È in questa relazione, dice Barbera, che si origina la questione dell’Antropocene ed è in questa relazione che si possono comprendere le sue dinamiche e le sue implicazioni future. Da quelle legate al cambiamento climatico e i disastri che ne conseguono – soprattutto in un Paese come l’Italia, la cui cattiva gestione del territorio è stata spesso al centro delle cronache – a quelle legate alle azioni di sfruttamento per ottenere risorse utili al fabbisogno della popolazione. E in un pianeta che vede la sua popolazione in costante crescita (nove miliardi e settecento milioni di persone previste nel 2050), comprendere che forma e direzione dare all’agricoltura industriale è un tema fondamentale dell’Antropocene, dato che le coltivazioni, gli allevamenti e i pascoli coprono oggi il 40% della superficie planetaria e utilizzano il 70% dell’acqua dolce disponibile.

Un incremento in questo senso non è possibile, diventa dunque necessario un radicale ripensamento delle attività agricole e di urbanizzazione per far fronte alla crescita demografica e ribaltare lo squilibrio tra necessità e risorse naturali disponibili. Il rapporto tra natura e cultura non deve essere inteso in senso “antagonista”: la natura non è un limite da superare.

L’agricoltura e l’urbanizzazione sono due tasselli di un quadro che coinvolge una varietà di discipline, da quella ambientale a quella economica, passando per quella sociale.

Dice Barbera:

Negli anni dell’Antropocene, nelle aree più favorite per disponibilità di risorse ambientali ed energia e idonee a ospitare i sistemi propri dell’agricoltura industriale, i processi di intensificazione hanno perseguitato il diffondersi di ordinamenti monoculturali caratterizzati da paesaggi banali e omologhi, tipici delle pianure irrigue e definibili come “paesaggi-industria”. Nel contempo, nei pressi delle grandi città, il paesaggio ha perso la sua omogeneità strutturale per frammentarsi e diventare il paesaggio dell’agricoltura periurbana nel quale città e campagna si congiungono in uno spazio misto, ibrido, senza identità: un “paesaggio supermarket” che sarebbe meglio, dove manca il controllo della crescita urbanistica, definire “paesaggio discarica”, costituito da manufatti abusivi, immondezzai, opere pubbliche incompiute, aree agricole abbandonate e degradate” .

Per osservare questo desolante quadro non c’è bisogno di forzare l’immaginazione, basta prendere un treno ed è possibile (ri)percorrere la storia rurale e urbana di un territorio.

Dal cuore di una città all’altra, attraversiamo piane o declivi, zone boschive o composte da colture intervallate qua e là da piccoli borghi. Le zone rurali occupano gran parte del viaggio, e mostrano come l’uomo sia riuscito ad addomesticare il territorio. Poi, in prossimità dei centri abitati, vedremo spuntare le prime sparute tracce edilizie, cresciute in assenza di regole urbanistiche, tra abusivismo e abbandono. E ancora le periferie, coi loro viali e i monotematici edifici in calcestruzzo, superate le quali penetriamo prima le zone d’espansione, o residenziali, poi gli strati più antichi della città, quelli del centro storico, dove le abitazioni si affastellano tra loro in una stratificazione di stili, epoche e correnti, che ci mostrano la sensibilità che la politica locale ha avuto verso il tessuto urbano-sociale. Anche questo è Antropocene.

Quella tratteggiata da Barbera è una dimensione nella quale bisogna ripensare la biosfera in termini relazionali e sistemici, partendo dal paesaggio, luogo dell’incontro tra natura, storia e cultura e quindi luogo chiave per cogliere la complessità dell’Antropocene, che trasferisce a livello globale temi che hanno una declinazione territoriale locale.

Un esempio da seguire, conclude Barbera, può essere quello intrapreso dalla Cina, la quale, facendo leva sulle radici culturali del pensiero neoconfuciano, vuole trasformare il socialismo della civiltà industriale in un socialismo orientato verso la civilizzazione ecologica. Parole che trovano primi riscontri nell’incremento dei siti partecipanti al programma delle Nazioni Unite GIAHS o attraverso lo sviluppo di un programma analogo ma locale, il China-NIAHS.

Salvatore Cherchi

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