Ora d’aria

di Marco Ivaldi

La luce del sole che filtra dall’esterno mi abbaglia. Pochi passi ancora e affondo le suole nell’erba umida e fresca. Hanno lavorato bene gli stronzi del braccio sei. Un paio di settimane fa questo cortile somigliava a un campo incolto e arido. Lo hanno rizollato per intero, un’opera certosina. Mi domando se questo anfratto di terra meritasse tanta meticolosità.
Un brivido mi percorre e scuote come una foglia, nonostante il clima mite. Neanche il tepore può alleviare la tensione. Il ferro appuntito che celo nella manica della camicia rimane così aderente alla pelle dell’avambraccio da risultarne un tutt’uno, come una piccola protesi premuta su un fascio di nervi. Individuo Enzo mentre, come di consueto, elemosina attenzioni con il suo ghigno aspro, le labbra sottili e tirate attraverso le quali trapelano denti da iena. Enzo non ha una compagnia stabile. Non è in grado di coltivare rapporti umani, tanto meno amicizie. E comunque, anche fosse, l’etica carceraria è lacunosa ma ferrea: in pochi socializzano con un pedofilo recidivo e violento. Enzo è un cane randagio che non si rassegna alla propria solitudine. Si accosta oggi agli uni, domani a altri. Intavola futili conversazioni fino a risultare non più gradito, dopodiché cambia aria. Al momento siede con un gruppetto di albanesi, lo degnano a malapena. Ancora per poco, Enzo è il mio fottuto compagno di cella.

Sono dentro da quasi tre anni, accusato e condannato per un omicidio che non ho commesso. Sono la vittima innocente di un errore giudiziario. Non sono la prima, non sarà certo l’ultima. Ma intanto, eccomi qui. Ho calcolato a spanne: sono trascorse circa ventiseimila ore. Ventiseimila ore di vita disseminate tra le sbarre e le mura scrostate e umide di questo carcere. Innocente e in gabbia, bestia di un circo senza pubblico.
Sulla carta dovrei scontare altri dieci anni, con la buona condotta forse meno. Ma sinceramente, mi sono rotto i coglioni di questa infruttuosa buona condotta.
Nel frattempo, oltre queste mura, mia moglie continua a combattere nel vano tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica. Giornali, televisioni, radio: invoca giustizia in ogni sede e con ogni mezzo, ma senza esito. Di recente è apparsa in un programma trasmesso in seconda serata. Una fascia oraria poco congeniale alla magistratura, forse, poiché di nuovo nulla si è mosso. Come ogni settimana, martedì è venuta a colloquio e mi ha rassicurato: il processo si riaprirà a breve, ha detto. L’avvocato avrebbe raccolto decisive prove a mio discarico. Lo ripete ogni settimana. Mi duole ammettere che, a mio avviso, la realtà è un’altra: converrebbe rassegnarsi.
Per una sola ragione al mondo sopporto questa farsa. Ha occhi turchesi e profondi, un sorriso che annichilisce il mio sconforto e si chiama Olimpia, la nostra bambina. Ha da poco compiuto sette anni. Ogni martedì la tengo in braccio, la stringo a me, la faccio giocare sulle mie ginocchia. Le passo delicatamente una mano tra i ricci scuri e, per qualche istante, sono libero. Una sua fotografia formato fototessera è il solo bene prezioso che mi è concesso dietro le sbarre. La conservo nell’unico libro che tengo in cella, sotto il cuscino della mia branda: Il libro della giungla. Un pensiero di Olimpia, è chiaro.
Me lo ha portato in carcere dopo pochi giorni di reclusione. Lo leggevamo insieme la sera, da piccola, prima che si addormentasse. Ora voleva che lo tenessi io, “così non ti dimentichi di me”.
Avevo trattenuto a stento le lacrime e mascherato la debolezza con un sorriso amaro. Poi avevo ricambiato il regalo con un bacio in fronte e la promessa che in nessun caso mi sarei scordato di lei.

Mentre seguo sottotraccia gli spostamenti di Enzo nel cortile – ora è acquattato vicino alla panca dove alcuni energumeni sollevano pesi mastodontici a ritmo costante – il mio sguardo incrocia quello di Antonio. Piantonato oltre la rete metallica, mi saluta con un lieve cenno del capo e una smorfia di intesa. Oserei dire che Antonio è la persona con cui sono entrato più in confidenza durante la detenzione, nonostante i nostri ruoli. È forse l’unico a conoscere la mia verità qui dentro. Non posso certo raccontarla a cuor leggero, a alta voce. Buona parte dei detenuti sfoggia con fierezza i trascorsi criminali e rinnegare i propri pone in cattiva luce. Ne va del quieto vivere, insomma.
Antonio è una guardia carceraria, ma anche lui tra queste mura sconta la propria pena.

Una sera come tante si trovava alla guida della propria auto, quando una vettura contromano ha invaso la carreggiata. Lo schianto è stato inevitabile, frontale e violentissimo. Lato passeggero sedeva Davide, suo figlio. È morto sul colpo. Antonio invece ne è uscito indenne, miracolato. Un miracolo che negli anni si è trascinato appresso come una condanna. Non si è mai perdonato di essere sopravvissuto a discapito del ragazzo. Non si è mai perdonato di essere ancora in vita. Da allora conduce l’esistenza di un ergastolano senza alcuna prospettiva di grazia. Non definirei il nostro rapporto come una amicizia, ma di certo fra noi vige una reciproca solidarietà. Tutto ciò che so di lui me lo ha riferito personalmente e per me significa molto. Un dialogo fra guardia e detenuto è di per sé merce rara.
Per quanto vano, Antonio ha sempre creduto alla mia innocenza.

Attraverso la recinzione, vedo che si dirige verso l’edificio che immette al cortile. È giunto il momento. L’ora d’aria sta volgendo al termine. Pochi minuti e dovremo rientrare in cella.  Imperturbabile, il mio sguardo si inchioda su Enzo. La tensione monta e mi travolge come una valanga. Inquietudine e adrenalina si mescolano alla paura. Una paura fottuta e cinica.
Non sono mai stato ciò che sto per diventare, ripeto tra me e me. Mi tremano le braccia. Non sono mai stato ciò che sto per diventare, insisto.
Scuotendo un campanaccio appeso a mezz’aria fra la rete metallica e il filo spinato sovrastante, Antonio sancisce il termine della nostra ricreazione. Adagio, i detenuti sciamano e si radunano di fronte alla porta blindata che riconduce all’interno del carcere.

In un groviglio di tatuaggi e cicatrici, mi appiattisco alle spalle di Enzo. Per l’ennesima volta nella mia mente affiorano nitidi fotogrammi. Un corto che mi ossessiona da quando vi ho assistito, la settimana scorsa, non ricordo il giorno esatto. Le brande a castello della cella ventotto, la cella che condividiamo. I miei due metri per tre di violenta intimità con quel figlio di puttana. Enzo è seduto di spalle sul suo materasso, quello di sopra. La mano destra armeggia dentro i pantaloni della tuta, sotto i pantaloni e sotto le mutande. Si sta masturbando. La sinistra tiene un quadratino lucido vicino al muso. Disgustato metto a fuoco. Fra le dita grezze dell’animale riconosco la fototessera della mia Olimpia.
È stato allora che ho deciso di tener fede alla mia condanna. Non sono mai stato ciò che sto per diventare, ripeto ancora. Non sono mai stato un assassino. È l’ultima occasione per desistere. Invece allento la tensione del braccio, lascio che la mia arma arrugginita scivoli lungo il polso e faccia capolino dalla manica. Lo sguardo di Olimpia mi trapassa.
Con un fendente alla schiena sorprendo Enzo. Il porco rimane paralizzato. Vorrebbe urlare di dolore, bestemmiare e implorare soccorso, ma il fiato rimane spezzato in gola in un grido afono. Nessuno si accorge di nulla. La mia foga non si arresta mentre premo il ferro sempre più a fondo, nelle viscere. Intorno a me, ignari complici coprono il mio delitto.
Questione di istanti e la bufera si placa.

I concitati momenti successivi li rivivo in terza persona, un vile espediente per spersonalizzare quanto accaduto. È un processo mentale governato dal subconscio in cui non mi intrometto. Nella calca, un corpo si accascia esanime. Quando le guardie irrompono nel cortile spianando le armi di ordinanza, nessuno ha coscienza dell’accaduto. L’infermeria viene subito allertata con le ricetrasmittenti in dotazione, ma è tutto inutile. Quando le uniformi sopraggiungono, Enzo è già cadavere.
Io intanto mi tengo a margine della scena e non appena ci viene ordinato, in coda agli altri detenuti, rientro. Quantomeno stasera dormirò in singola.

E invece no.
Effettivamente sono rimasto solo in cella, non mi hanno assegnato subito un nuovo compagno. Ma di prendere sonno non se ne parla. A una settimana dall’abominio che ho compiuto mi è ancora impossibile chiudere occhio la notte. Le occhiaie scavano il mio viso in maniera indelebile. La mano destra trema ancora se non mi impongo il contrario. In ogni gesto quotidiano, in ogni singola parola o suono rivedo Enzo, il suo incedere, il suo biascicare. Mi barcameno in un incubo cosciente e reiterato.
Per intere giornate e nottate mi sono chiesto se vi siano testimoni del mio delitto.
Qualcuno, nella confusione, potrebbe aver colto qualcosa e, forse, attende soltanto la giusta offerta per parlare. E in carcere, l’etichetta di “giusta offerta” si strappa davvero a buon mercato. Talvolta la parola o il silenzio di un detenuto valgono appena una sigaretta di contrabbando. Mi sono anche domandato se, nella peggiore delle ipotesi, il regime di isolamento sia davvero preferibile alla convivenza con Enzo.
La prospettiva mi terrorizza, è innegabile. Non fosse altro che per le leggende metropolitane che aleggiano in proposito. Fra detenuti si racconta di spietati boss piegati come tulipani al vento nelle celle di massima sicurezza; di soggetti che hanno lasciato unghie, pelle e sangue sulle pareti ruvide, solo per realizzare uno schizzo che alleviasse la solitudine imposta loro.

Poi, una mattina, ho temuto il peggio.
Antonio si è avvicinato alle sbarre della cella, le ha battute con il manganello per richiamare la mia attenzione e ha detto soltanto: “seguimi nell’ufficio del direttore”.
Solo allora ho realizzato con lucidità e freddezza: avrei preferito essere vittima piuttosto che carnefice. Destinato al dimenticatoio, ho riflettuto, meglio morto in una bara che vivo in una cella.

Nell’ufficio del direttore, invece, è accaduto l’imponderabile.
Prima ancora di realizzare, mi sono trovato mia moglie aggrappata al collo. Mi cingeva sopra le spalle con una presa ferma e morbidissima. In lacrime, mi ha baciato più volte sulle labbra. Pensai di aver finalmente preso sonno. Forse, dopo molto tempo, stavo sognando.
“Te lo dicevo amore…”, mi ha sussurrato all’orecchio prima di stamparmi l’ennesimo bacio sulle labbra.
Sono trascorsi altri attimi di euforica confusione prima che il direttore intervenisse. Mi ha fornito le debite delucidazioni e, a fatica, mi ha convinto che non si trattava di un sogno. Erano davvero emerse cruciali novità sulla mia vicenda. Attorno all’ora del delitto per il quale ero stato condannato, le riprese di una videocamera di sorveglianza privata mi avevano immortalato a svariati chilometri di distanza dalla scena del crimine. In qualche modo il mio avvocato era entrato in possesso della registrazione. Era la prova incontrovertibile della mia innocenza. Il magistrato non aveva potuto fare altro che riaprire il fascicolo e disporre la mia immediata scarcerazione.
Poco dopo, appena il tempo di ritirare gli effetti personali, i cancelli metallici del carcere si sono chiusi alle mie spalle sancendo l’epilogo del mio calvario.
Da lì a breve, in appello, sarei stato assolto con formula piena per non aver commesso il fatto. Non ero più un assassino.
Nei giorni seguenti l’ordine naturale delle cose si è sovvertito.
Televisioni e giornali, per anni sordi alle mie vicissitudini, si sono messi in coda alla mia porta. Sono stati scritti articoli, ho reso interviste e partecipato a incontri e conferenze in materia di giustizia e diritto penale. A conclusione dei miei interventi sono scrosciati applausi. Dopo tanta indifferenza, ora le mie dichiarazioni rimbalzano attraverso media e social network e tutti vi aderiscono, le condividono, vengono stampate a caratteri cubitali in prima pagina. Dall’oggi al domani sono diventato una vittima del sistema e un simbolo di speranza, martire di una giustizia processuale troppo spesso fallace.
Dopo tanto inchiostro e fiato sprecato per formulare accuse infamanti nei miei confronti, tutto d’un tratto il mondo mi ha riscoperto innocente. Finalmente posso gridare ai quattro venti che mai avrei ucciso un essere umano. Spesso, in pubblico, mi sono domandato come sia concepibile un gesto tanto ignobile. Oggi, nel raccontare la mia verità, tutti mi credono. Oggi, all’improvviso, tutti mi hanno sempre creduto.

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