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Fratello e Sorella: Diane Keaton a caccia di memorie

Pagina dopo pagina, una cosa spicca tra tutte, leggendo Fratello e Sorella. Una storia vera edito in Italia da Baldini+Castoldi: Diane Keaton è generosa. Di dettagli, di immagini, di impressioni: non va al risparmio, non è questo il momento per sugar–coating, come direbbe lei, o indorare la pillola, smussare gli angoli, migliorare le apparenze. È proprio oltre queste che il racconto e il libro vogliono andare: è il pretesto per affrontare il passato e le sue mancanze, scovarvi le tracce mai colte prima del presente, mettersi faccia a faccia con la propria famiglia – e se stessa. Ma, soprattutto, con Randy.

Avevamo gli stessi genitori e frequentavamo la stessa scuola, perché dunque eravamo così diversi? Perché ha vissuto la sua vita senza farsi nemmeno un buon amico? Perché non è riuscito a smettere di bere? Come faceva a scrivere con tale lampante chiarezza e bellezza, eppure con così nefasta violenza?

Diane Keaton, Fratello e Sorella

Forse vi ricorderete di Diane Keaton per alcuni film come (semicit.) Il padrino I–II–III, Io e Annie (proprio a lei ispirato), Manhattan, Il padre della sposa, Tutto può succedere, The Young Pope. Espressiva al massimo, effortless, con il proprio guardaroba sempre con sé e senza l’aiuto di una costumista, Diane ha mantenuto la propria identità pur trasformandosi in ogni personaggio richiesto, anche come direttrice e produttrice.

Trovarsi improvvisamente nel mondo di Diane Hall (sì, anche il suo vero cognome ha ispirato Woody Allen creando Annie) prima che fosse Diane Keaton, seguirla alla ricerca di un senso e di memorie, ci trasforma in cacciatori al suo fianco: ma la nostra preda è sfuggente, non parla, non lascia tracce. O almeno, da noi comprensibili: Randy ha una lingua, ma non è la nostra, ha segni, ma non sono interpretabili in modo convenzionale. Fratello e Sorella è anche uno scendere a patti con questa diversità, invece che ignorarla.

Diane e Randy da bambini

La prima sconfitta che si presenta chiara, in questo libro, è quella della perfetta famiglia americana. Più che un fallimento personale, è una disfatta generazionale, politica, nazionale: ma accettarlo e non ritirarsi di fronte alle crepe deve diventare una scelta attiva, un impegno costante, un’occupazione militante. E la famiglia Hall, come tante altre da ogni parte del globo, non è in grado di, o non è pronta a, farlo: la vittima prescelta, verso cui si concentrano tutte le frustrazioni, le speranze e le incomprensioni è Randy, il secondogenito di quattro.

Muovendosi tra il detto e il taciuto, tra le conversazioni origliate e i report degli psichiatri, Diane intuisce che qualcosa può essere accaduto a Randy al momento della nascita: la sua testa appena spoporzionata, durante gli anni dell’infanzia, sembra confermarlo, assieme alla sua costante paura di tutto, al suo bisogno di isolamento e di routine, al suo sfuggire i confronti e le decisioni. È solo strano, Randy, un bimbo e poi un giovane uomo particolare, o c’è qualcosa di più?

Tre scatti di Randy

Questo è uno dei dettagli in cui avrei voluto che l’edizione Baldini+Castoldi avesse fatto di più: la volontà di tradurre dall’inglese le poesie di Randy sicuramente aiuta noi lettori italiani, ma la perdita di alcune parole, del loro suono e del loro significato originario un po’ sfuma e – involontariamente – aiuta proprio l’indoramento della pillola. Come quando Dorrie, una delle sorelle di Diane, le riferisce che Randy sta scrivendo delle canzoni, tra cui una che fa «I am a freak at the fair, people stare but I don’t care, I am a freak at the fair». La traduzione nelle note dice «Sono un pazzo alla fiera», e sbaglia. Freak è molto di più: un freak è un emarginato, ma è anche un fenomeno da baraccone, uno di quei deformi, gemelli siamesi, strani incontri tra bestie e persone rifiutati dalla società come orripilanti e menagrami e che avevano trovato il loro posto nel mondo grazie ai freak shows.
Non solo: come riporta anche la Treccani, un freak è un fricchettone, qualcuno che rifiuta la conformità di un lavoro e delle convenzioni sociali, che vuole vivere in modo diverso e che spesso fa uso di droghe. Il messaggio che Randy sta dando alla propria famiglia è molto più profondo di una ammissione di pazzia: sta dicendo «Io non ci sto e non ci voglio stare», che lui non è come le altre persone («people» nella canzone).

Diane Keaton negli anni

Come succede in quasi tutte le storie familiari (e la mia non è stata da meno), ci si ritrova ancora più uniti nella malattia. Randy passa una vita a drogarsi, a non lavarsi, a bere dalla mattina alla sera e a non uscire di casa? È ancora accettabile – o almeno è ancora ignorabile. Non è un’emergenza come un trapianto di fegato: lì ricominciamo a ricoprire i nostri ruoli di familiari, di cari e di assistenti, e contemporaneamente riscopriamo anche i nostri assistiti.

Randy però non è docile nemmeno nella malattia, ma neanche Diane, Dorrie e Robin sono le stesse bambine e ragazzine di una volta: finalmente non sono più solo figlie e figlio, ma riescono a costruire un rapporto di fratellanza che va oltre al condividere la stessa madre, lo stesso padre e la stessa camera, forse anche lo stesso letto a castello.

Mentre recitavo le mie parti, pellicola dopo pellicola, mio fratello passava il tempo a bere nel suo condominio per single, con i jet da combattimento che, volando a bassa quota, lo terrorizzavano giorno dopo giorno. Anni dopo, mi confidò quanto era stato disperato: mentre io interpretavo quella testa calda di Louise Bryant, lui aveva cercato di togliersi la vita in garage con il gas di scarico.

Diane Keaton, Fratello e Sorella

Da questo viaggio all’indietro in cui ci porta Fratello e Sorella, si esce con gli occhi lucidi. Per comunanza, per nostalgia, o perché Randy sa dare corpo a parole e sensazioni che tendono a sfuggire o che non si dovrebbero nemmeno provare a pensare, figuriamoci a pronunciare, o ancora perché Diane lo ammira, in fondo, più di quanto lo disprezzi o non lo capisca. Perché «familiare» non è solo qualcuno che appartiene alla famiglia: è anche qualcuno che si riconosce, che per quanto muti e invecchi non può rimanerci estraneo.

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