Emily in Paris: c’era una volta New York… e adesso ci accontentiamo di Parigi

Ottobre, oltre ad essere il mese delle castagne e del ritorno al cappottino, è anche il periodo in cui le piattaforme e i canali payperview buttano fuori le nuove serie da vedere tutto d’un fiato. E Netflix, tra le altre, ha lanciato Emily in Paris, la nuova creatura di Darren Star.

Da storica fan (ma forse sarebbe più corretto ammettere da addicted) di Sex&TheCity me la sono bevuta senza pause: facile, lo ammetto, perché sono 10 episodi con il vecchio format di circa trenta minuti l’uno e un taglio decisamente leggero.

Diciamolo subito: il caro Darren non è (e chissà se lo sarà mai più) ai livelli dell’amato SATC, ma devo dire che, se si abbassano le aspettative, la sua Emily in Paris è godibile.

Lily Collins, candidata ai Golden Globes come miglior attrice per L’eccezione alla regola di Warren Beatty, è qui in stato di grazia nei panni di Emily Cooper, giovane esperta di marketing digitale from Chicago, che si trasferisce per lavoro a Parigi, dove affronta i problemi con una lingua che non conosce, una cultura totalmente lontana dalla sua e un ufficio ostile al cambiamento verso l’american way of life che è destinata a introdurre.

Dopo i meravigliosi titoli di testa che si immergono nelle prime scene di ogni episodio, la serie snocciola un ripetersi di cliché sulla vita parigina (che pare abbiano fatto molto arrabbiare i francesi), l’amore e i rapporti di lavoro nel nuovo millennio e, diciamolo, non apporta nessuna rivoluzione o contenuto indimenticabile. Non lo fa però in modo talmente evidente da far pensare che, in realtà, non sia mai stata questa l’intenzione.

In una Parigi clamorosamente glamour, tra citazioni, locali storici, stilisti isterici, una fotografia curatissima e totalmente in linea con i temi, il focus è proprio su @emilyinparis, il profilo IG che la protagonista crea e che la trasforma inconsapevolmente e piuttosto rapidamente in una influencer.

Sembra proprio che ci sia un unico tema su cui Star vuole riflettere: il fatto che la vita sia oggi totalmente instagrammabile (lo suggerisce persino la cover del telefono di Emily così come la fotografia della serie che sembra costruita con i filtri perfezionatori dei social) e il modo in cui i social network possano influenzare il mondo del marketing se usati in un certo modo, suggerendo al contempo un utilizzo meno votato al mezzo-lavoro e più inglobato nella spontaneità della vita.

Purtroppo è però poca cosa rispetto alla rivoluzione degli anni Novanta, quando per la prima volta nella storia seriale (e non solo!) il nostro Star aveva mostrato al mondo, soprattutto quello maschile, come le donne non parlassero proprio di punto a croce di fronte a un cocktail a Manhattan.

Ai tempi i dialoghi di SATC erano irriverenti al punto giusto e perfettamente riconoscibili dal pubblico che si innamorò della serie, sebbene una parte del mondo (anche qui maschile) li ritenesse assolutamente inverosimili. Decisamente un break in the wall dei tabù sull’approccio delle donne al sesso e alla vita, una dichiarazione d’amore verso New York City e una sfilata continua di abiti e accessori da sogno (Manolo Blahnik spopolò a livello mondiale grazie all’amore di Carrie per le sue scarpe).

In Emily in Paris, purtroppo, quello che resta sono la cornice della moda e del glamour sia nei costumi (incantevoli) che nelle location e quella relazione apertamente sentimentale con la città.

Parigi regge perfettamente il ruolo di amante così come lo aveva fatto New York, eppure Emily non è Carrie e non ci immedesimiamo mai nella protagonista, troppo giovane per noi ragazze degli anni Novanta, ma poco realistica anche per le Millennial.

Del resto questi sono gli anni Venti del nuovo millennio, gente. L’ultimo decennio del secolo scorso portava ancora addosso il carico di quelle rivoluzioni sociologiche e di costume, che sono state poi spazzate via da un millenium bug diverso, ma chissà se addirittura peggiore di quello che tutti ci aspettavamo.

Emily non è Carrie, perché la Bradshaw, come noi ragazze del Novecento, era tutta ripiegata su sé stessa, alla ricerca del vero amore sì, ma soprattutto della consapevolezza di sé. Emily invece quella consapevolezza sembra averla bene in pugno e guarda il mondo attraverso il suo smartphone: i problemi che affronta sono presentati come una homepage di IG da scrollare, come un post da osservare e scorrere in avanti per passare al prossimo. Carrie scriveva sul New York Times, pubblicava libri e si occupava di temi in apparenza superficiali, ma che ponevano domande che spesso ci bruciavano dentro per settimane, mentre Emily si occupa di marketing, scatta foto e posta rapidamente copy acchiappa-click. Chissà che il nostro Darren Star non voglia farci riflettere (ancora?) su come la rivoluzione dei social abbia profondamente modificato l’approccio alla vita. Ma dove sono finite tutte le domande e le incertezze che attanagliavano tutte noi Carrie di fronte al costante buon umore di una Emily, sempre pronta a risolvere i suoi problemi con un click? Bisogna ammettere che ogni tanto anche qui si intravede un vago smarrimento nella protagonista, dovuto principalmente al suo senso di solitudine. In ogni scena in cui però questo viene fuori, ecco comparire un nuovo personaggio pronto a farle compagnia e a ricordarle quanto meravigliosa sia Parigi (e la sua vita).

Sex&TheCity non è Anna Karenina certo, ma è tuttora un cult: ognuna di noi è stata (o ha desiderato essere almeno per una volta!) disinibita come Samantha, ingenua come Charlotte, cinica come Miranda e odiosa come Carrie. L’indimenticabile Bradshaw era infatti un personaggio per lo più odioso, ma in cui tutte, veramente tutte, ci siamo immedesimate. Emily non è una di quelle ventenni che tanto facevano paura alle trentenni newyorkesi del secolo scorso, è invece lo specchio del nuovo mondo, il new deal social che si sparge liquido sulle nostre vite e che ci lascia orfane di tutta quella odiata, eppure profonda, cerebralità.

Perché quindi guardare Emily in Paris? Forse perché abbiamo nostalgicamente chiuso le Manolo Blahnik nell’armadio e ci siamo rassegnate a gustarci questo approccio alla vita mordi e fuggi, senza porci troppe domande? Io credo di no.  Forse bisogna solo ammettere che tutte noi la sera sul divano, dopo una giornata di lavoro, stress, figli e bollette, abbiamo ancora bisogno di fare un passo nel glamour e farci una dose di leggerezza per affrontare il mondo reale domani, sperando di poter un giorno, tornare a passeggiare su un bel paio di tacchi per le strade di Manhattan.

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