Calliphora Vomitoria Giuliodori Germogli

Calliphora Vomitoria

di Francesco Giuliodori

Karl Friedrich Erwisch era di ritorno dal Deutsches Entomologisches Institut, dove lavorava ormai da quindici anni. Faceva parte del dipartimento di tassonomia degli insetti, e da qualche anno stava raccogliendo un’importante collezione sui dermatteri. Sentiva che sarebbe stato il suo lascito, una piccola impronta digitale che lasciava ai posteri a suo nome: La Dermaptera Omnia di Karl Friedrich Erwisch.

Era stata una brutta mattinata, quella. Aveva discusso a lungo con Franz Brennid, uno del dipartimento di filogenetica con cui non era mai andato d’accordo. Brennid aveva analizzato la sua raccolta e sosteneva che gli argomenti sull’evoluzione della Forficula auricularia fossero completamente errati. Grazie all’intervento di Brennid il lavoro era in stallo, e Karl doveva capire come uscire dall’impasse. Quell’esemplare era troppo importante per essere eliminato con leggerezza.

Stava guidando lungo la via ghiacciata di Eberswalder mentre ragionava sul problema. A causa della discussione era anche in ritardo per andare a prendere i suoi figli, Alfred e Gerhard, alla scuola primaria. Al semaforo sorrise per un pensiero di rivalsa puerile che gli era venuto in mente: immaginò Franz Brennid con la testa di una enorme blatta nera comune – il più insignificante degli insetti, a suo avviso.

La giornata era cupa, uno strato uniforme di nubi grigie risucchiava il colore del mondo sottostante. Nell’aria tagliente si percepiva la minaccia di una nuova nevicata. Arrivato a scuola, Karl vide che i suoi bambini erano gli ultimi rimasti nel grande salone dell’entrata. La maestra lo guardò torva e lui si profuse subito in spiegazioni.

«Mi scusi tanto signora Meyer!» disse. «La strada era ghiacciata e ho beccato un idiota senza gomme termiche che andava a passo d’uomo» mentì. Poi diede due rapidi buffetti ai bambini, avvolse bene la sciarpa rossa intorno al collo di Alfred e li condusse alla macchina.

Arrivati a casa li aiutò a fare i compiti per un’ora abbondante e iniziò a preparare la cena mentre i bambini guardavano Adventure time sul tablet.

Mangiarono salsicce e patate con la tv accesa sul notiziario. Karl sapeva che i bambini detestavano il telegiornale, ma era l’unico momento per lui di rimanere in contatto con quello che succedeva al di fuori dell’istituto di entomologia. Alfred e Gerhard parevano ormai rassegnati, troppo rassegnati per avere quell’età. Anche la signora Meyer, al colloquio della settimana precedente, era sembrata preoccupata.

«Signor Erwisch», gli aveva detto, «è difficile ma voglio essere diretta. Sono in pensiero per i suoi figli, sono troppo silenziosi e non giocano con i compagni. So che è terribile ciò che è successo da poco a sua moglie, ma per quanto valga la mia opinione vorrei consigliarle di consultare uno specialista. Non vorrei farla preoccupare più del dovuto, ma un confronto con un esperto sicuramente non farà del male. Tenga questo, ci pensi bene» e gli aveva passato un biglietto da visita bianco con una scritta in rilievo argentata.

Forse doveva chiamarlo, sì.

Finirono di cenare e Karl disse ai bambini di andare in bagno a lavarsi i denti. Tirò fuori il biglietto da visita, e se lo rigirò un po’ tra le dita. Domani, domani lo chiamo, si disse. Poi sistemò la cucina e si diresse nella camera che Alfred e Gerhard condividevano. I bambini erano già in pigiama sotto le coperte, aspettavano la buonanotte. Karl si chinò a baciare Alfred, arruffò i capelli a Gerhard e spense la plafoniera sussurrando un «Vi voglio bene» prima di chiudere la porta.

Decise di andare a letto anche lui, era stremato.

Infilò un lungo pigiama sformato, sistemò i cuscini per leggere e accese una luce calda che tinse le pareti d’arancio. In camera c’era un tepore intimo e fuori aveva iniziato a nevicare debolmente. Quello, tra tutti, era il momento della giornata che preferiva. Il piccolo ritaglio di spazio personale che ancora non si era strappato.

Si immerse nel silenzio spesso delle parole, quando un ronzio improvviso lo interruppe.

Un moscone era spuntato da chissà dove.

«Un moscone a dicembre?!» si chiese stupito.

Ma quello smise di ronzare e Karl tornò alla lettura.

“L’unica cosa che posso fare adesso è conservare fino all’ultimo la capacità di distinguere con calma. Ho sem…”

L’insetto riprese a ronzare, e a schiantarsi contro la porta finestra della camera. Karl non poté fare a meno di reprimere un moto di rabbia. Si calmò e riprese a leggere la stessa frase per la terza volta, deciso a ignorarlo. La quiete era tornata, ma ora Karl sentiva un silenzio carico di tensione.

L’unica cosa che posso fare adesso è conservare fino all’ultimo la capac…”

Di nuovo il silenzio venne sgretolato dal ronzio isterico.

L’uomo si alzò di scatto e aprì violentemente la porta finestra, le vene gli pulsavano alle tempie.

«Toh esci, vai a morire assiderata fuori!».

Il freddo cominciò a entrare, ma il moscone pareva indifferente al gesto di Karl. Non sembrava avere nessuna intenzione di uscire.

«Stupida Calliphora vomitoria, schifo di un dittero comune, ignobile moscone mangiamerda che non sei altro» si ritrovò a imprecare a voce più alta di quanto volesse e per un momento credette di aver svegliato i bambini. Si mise in ascolto ma non sentì nessun rumore provenire dall’altra stanza.

«Bene, l’hai voluto tu», mormorò. Chiuse la porta finestra, prese il libro che stava leggendo e si mise in agguato. Appena il moscone si appoggiò sulla parete a tiro, l’uomo fece un balzo felino e scaraventò il libro sull’insetto. Quello tentò la fuga, ma troppo tardi. Il bordo della copertina lo tramortì e il moscone cadde a terra facendo una parabola, come un fiore appassito. Si muoveva ancora debolmente, riverso, quando un ultimo colpo pose fine alla sua agonia.

Karl esultò, ma alla gioia immediata iniziò a subentrare un vago senso di colpa e insoddisfazione.

Si scrollò di dosso quella sensazione e ignorò il cadavere nero, se ne sarebbe occupato il giorno dopo. Il silenzio era stato ristabilito, si era riappropriato del suo spazio intimo e decise di tornare a leggere. Eppure, qualcosa non andava.

Quel gesto rabbioso, il balzo repentino e lo sforzo inconsueto avevano rovinato l’atmosfera. Era agitato e il letto gli sembrava all’improvviso troppo grande per una sola persona. Lesse una decina di pagine, ma senza coglierne il senso. Le parole scorrevano e Karl si sorprese a pensare a sua moglie: rimodellava il passato a proprio piacimento, sviluppando ipotesi di comportamenti diversi che portavano a un presente migliore. Vagò a lungo in questo modo fino a che tutto si confuse nell’amalgama indistinto e consolatorio del sonno.

Si trovava ora in un’aula di tribunale, seduto al banco degli imputati con l’avvocato alla sua destra.

Davanti a lui, sullo scranno del giudice, un uomo lo guardava severamente. Aveva un viso familiare, Karl strizzò gli occhi e lo riconobbe: era Franz Brennid, la blatta nera comune.

Alle sue spalle percepiva una pressione intimidatoria, centinaia di occhi lo fissavano. Era l’imputato principale: si sentiva nervoso, piccolo e viscido.

Al banco dei testimoni aveva preso posto un moscone dalle dimensioni umane con il capo fitto di peli neri e occhi rossi gelatinosi che guardavano in ogni direzione, ma più di ogni altra cosa guardavano Karl. Il moscone iniziò a parlare rivolto al giudice.

«Sì, confermo, è stato lui. Ha agito deliberatamente e per futili motivi. Io stavo solo cercando un posto tranquillo dove depositare le uova, una casa per i miei piccoli. Provavo a scappare dal freddo che c’era fuori, quando lui… quando lui…» si interruppe e le ali iniziarono a frullare nervosamente.

«Quando lui?», chiese l’avvocato dell’accusa.

«Quando lui ha preso un aggeggio infernale, e ha iniziato a minacciarmi. Ho cercato di scappare, ero terrorizzata… poi mi sono appoggiata un momento per riposare e quel mostro,» disse indicando Karl con una zampa nera pubescente. «Quel mostro mi ha colpito con forza due volte. Mi ha ucciso, esultando, senza alcuna pietà».

«Ma sei viva! Stai parlando!» si ritrovò a urlare Karl, quasi con le lacrime agli occhi.

«Silenzio!» tuonò il giudice.

«No, sono morta.» disse il moscone in un ultimo trasporto di sdegno, «sono morta e parlerò fino a quando sarà necessario».

Il giudice disse che poteva bastare per ora, quindi chiamò Karl al banco a deporre.

L’uomo si avviò trascinando i piedi, alle caviglie aveva dei ceppi di ferro che stridevano a contatto col pavimento. Si sedette e con uno sguardo abbracciò l’aula intera. Per la prima volta vide il pubblico, e la sua bocca si contorse in un urlo deformato.

L’aula era piena di esseri dalle sembianze umane con teste enormi di mosca, centinaia di occhi mollicci si muovevano obliqui, dalle scapole crescevano ali viscide e alcuni si sfregavano con forza le mani sudicie, come in attesa di fare un buon pasto.

Vide la Calliphora che aveva appena testimoniato tornare al suo posto e avvolgere una sciarpa rossa attorno a due larve di mosca putrescenti, accarezzandole con una zampa lurida e nera. Accudiva con amore quella prole che non poteva più crescere. Il moscone guardò l’uomo e le ali diafane iniziarono a frullare nervosamente. Uno alla volta, gli uomini-mosca imitarono la Calliphora e un ronzio cupo di sdegno si diffuse per l’aula come una macchia che si espande, fino ad avvolgere tutto, fino a diventare insostenibile.

Karl si portò le mani alle orecchie e guardò in atto di supplica il banco dei giurati. Anche i membri della giuria si erano uniti al coro di sdegno, tutti tranne una persona, l’unica ad avere sembianze interamente umane. Guardò meglio e con terrore riconobbe Astrid, sua moglie. Fissava un punto vuoto davanti a sé, la pelle del viso aveva un colore verdastro e si stava screpolando lungo la linea della bocca e del naso, gli occhi gonfi riflettevano una vischiosità di nebbia. Karl represse un urlo e la sua attenzione fu catturata dalla Calliphora, che spiccò il volo, seguita da tutti gli altri. Vorticavano nell’aria in una nube confusa, sbattendo sulle pareti, sui banchi di legno, sul soffitto decorato a motivi floreali. Il ronzio divenne frastuono, e tutti, come se seguissero un ordine, si fiondarono sul corpo di Astrid, fino a che venne sommerso da un grumo di massa nera.

Karl non riuscì più a trattenersi e scoppiò a piangere in un accesso di pietà e disgusto. Invocò aiuto, disse che era stato tutto un errore, un incidente, un equivoco. La stanza attorno a lui iniziò a confondersi e le forme a dissiparsi dietro il filtro delle lacrime. A quel punto il giudice prese il martelletto, si alzò sullo scranno e lo sbatté nel legno più volte. Vibrava ogni fendente con furia e ad ogni colpo urlava con quanto fiato aveva in gola: «Colpevole! Colpevole! Colpevole!».

Ogni rintocco squassava il corpo di Karl e faceva vibrare le pareti dell’aula fino a che persero di consistenza. L’uomo si teneva disperato la testa tra le mani, gli occhi infossati tra le orbite, il cuore scandiva i colpi del martelletto. Poi la bocca del giudice, deformata da un urlo che non era più umano, iniziò a inghiottire ogni cosa: gli uomini-mosca, la Calliphora, le larve, Karl; fino a che rimase solo una parola a riecheggiare nel vuoto del sogno: Colpevole, Colpevole, Colpevole.

Si svegliò sudato, gli occhi sbarrati, il cuore che palpitava. Si alzò dal letto, prese il moscone morto e lo gettò fuori dalla finestra. Poi rimase per un po’ a contemplare la neve che cadeva sottile nel buio. Aveva bisogno di calmarsi. Il freddo e il silenzio erano balsamo per i nervi e senza rendersene conto iniziò a sussurrare a quel cielo senza stelle.

«Non è colpa mia Astrid, non è colpa mia».

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