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Pop Corno: Totò all’Inferno


Il 28 dicembre 2020 il cinema ha compiuto 125 anni: in quello stesso giorno del 1895, infatti, venivano proiettati pubblicamente i 46 secondi di quello che è considerato il primo film della storia, creato dai fratelli Lumiére. Io invece, di anni ne sto per compiere trenta e ho visto pochissimi film: Pop Corno è il mio pubblico tentativo di fare ammenda.


Lo dico: non ho mai visto un film con Totò. E non ne avevo nemmeno previsti nel calendario di Pop Corno, ma quando Mario ha annunciato il Danteversario ho subito capito che le due cose potevano e dovevano andare di paripasso: oggi vi parlo di Totò all’inferno (1995).

Tutto inizia con dieci minuti muti, di introduzione, che servono a dare l’atmosfera – ma che, in realtà, ci ingannano per bene: Antonio Marchi (Totò) sembra essere un arreso, che tenta il suicidio in più e più modi senza successo (nemmeno in questo!), fino a che non muore per errore, mentre il ponticello su cui sta camminando cede. Inizia così la discesa agli inferi della sua anima, che atterra dopo sette-otto ore (ci informa Belfagor, infatti, che è questa la durata media del viaggio di un dannato) in un Inferno colorato, in cui fumi salgono fitti e figure scure corrono agitate.

Qui approda Antonio, traghettato da Caronte (che ammonisce i nuovi dannati come faceva nella Divina Commedia: «Guai a voi, anime prave!»), e qui incontra Pacifico, sodale del nostro anche nell’aldiquà: subito inizia un fitto scambio di battute che rivela il Totò che si nasconde nella giacchetta bianca di Antonio. «Noi napoletani siamo organizzati, siamo una colonia, ci facciamo rispettare» gli confida Pacifico, che è da vent’anni all’Inferno, entrando di petto nella tradizione della commedia italiana: napoletani e milanesi non verranno più nominati, ma ormai il mood è settato, stiamo sorridendo e già capiamo che questi due le regole dell’oltretomba non le seguiranno mai.

A guardia della legge c’è Belfagor, che arriva ad accogliere Antonio Marchi e lo porta al cospetto di Satana per parlare della sua pena. Al momento, però, i gironi sono particolarmente affollati, quindi viene riservata ad Antonio una cameretta con vista sui lussuriosi, pieno di donne voluttuose.

La notizia dell’arrivo di Antonio, però, ha messo in agitazione qualcuno: egli infatti è la reincarnazione di Marco Antonio, atteso a lungo – millenni – da Cleopatra, che si trova agli Inferni per scontare la pena del suicidio. Questo è uno dei tratti che l’Inferno totoiano ha in comune con quello dantesco: incontriamo anime anche precristiane, che vengono scelte per la loro esemplarità, tanto nella vita quanto nel contrappasso.

Cleopatra ha deciso di offrirsi a Satana per non incorrere nella punizione destinata ai suicidi, ma il suo amore per Marc’Antonio non può attendere oltre e si intrufola nella sua stanza – non prima di essersi confrontata con la madre, che si appropria di un’altra terzina dantesca, stravolgendola: ricorda alla figlia la sua incredibile bellezza, così potente anche nell’aldilà che anche il conte Ugolino «solleva la testa dal fiero pasto» quando passa.
L’incontro tra i due amanti però non passa inosservato: subito i diavoli arrivano per separarli e Totò si dà alla fuga.

Attraversando di corsa il girone dei lussuriosi, Totò incontra nuovamente Pacifico, che gli indica un tunnel dove rifugiarsi: finisce così in una sorta di luogo parallelo, il rifugio degli esistenzialisti. Di nuovo in bianco e nero, questo intermezzo serve per mostrare altre sfaccettature del nostro (anti)eroe, che con abilità si cala in ogni ruolo che gli viene richiesto – o in cui si trova costretto.

Ma ha i diavoli alle calcagna: lo riportano all’Inferno, dove è arrivato il momento del giudizio. A difendere Antonio c’è Cicerone, ma non sembra fare un gran lavoro: le accuse sono rapina a mano armata, sequestro di persona e inadempimento dei doveri coniugali.
Ecco allora che Totò decide di prendere la parola e difendersi da solo, raccontando come queste accuse siano in realtà frutto di travisamenti: si aprono quindi i flashback in bianco e nero, che ci riportano sulla terra e ci mostrano un Antonio Marchi sempre nella parte del fesso e del gabbato, che tuttavia ha una sua genialità incompresa.

Dal nuovo lavoro, che è quello di rapinatore di strada e da strapazzo, al matrimonio con le gemelle siamesi fino al finto pazzo, Totò esibisce tutto il proprio talento nelle caricature e la sua abilità nel ribaltare la situazione con le sole parole. Ma non è sufficiente: finito il racconto, i diavoli sono impietosi e lo condannano allo squartamento perpetuo – anche questa una punizione che ricorda molto quelle dei miti greci (per esempio Atlante o Prometeo) o dell’Inferno dantesco, dove l’atto si ripeterà in eterno, senza possibilità per il condannato di sfuggirvi.

Per fortuna, però, lo spavento è talmente forte che Antonio Marchi si risveglia: è in ospedale, circondato da tutti gli attori che hanno impersonato Belfagor, Cleopatra, la suocera e Pacifico, e che sono in realtà medico, infermiera, suora e passante. Lo hanno assistito dopo la brutta caduta dal ponte e lo rassicurano: non c’è nessun Inferno, anche se l’idea è così buona che ci si potrebbe fare un film.
O, forse, è già stato fatto…

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