La primavera perfetta: un romanzo di formazione tardiva

Non leggevo Enrico Brizzi dal 1999, dall’Elogio di Oscar Firmian e del suo impeccabile stile. E fin lì l’avevo adorato. Al punto che un mio tema, scritto in prima liceo a proposito di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, aveva convinto l’insegnate di Lettere a far leggere il libro alla classe subito dopo Il giovane Holden di Salinger. Ma si sa, l’adolescenza è ondivaga. E quando Brizzi, nei libri successivi, prese a raccontare la montagna io, che sono nato ai piedi delle Alpi ma preferisco il mare, l’avevo abbandonato.

Per più di vent’anni ho guardato Enrico Brizzi da lontano, con la stessa nostalgia che si dedica al ricordo delle feste delle superiori e il desiderio, soffocato da qualcosa che somiglia al senso di colpa, di recuperare un rapporto interrotto senza sapere da che parte cominciare. Finché la primavera del lockdown mi ha portato in modo fortuito a incrociarlo, attraverso una delle storie Instagram che facevano da riempitivo tra i canti sul balcone e i bollettini della protezione civile. E visto che, come dice il poeta, certi amori non finiscono ma fanno dei giri immensi e poi ritornano, ho pensato fosse tempo di ridurre la distanza.

L’occasione si è presentata con il suo nuovo romanzo La primavera perfetta, uscito per Harper Collins in quest’altra primavera 2021 che, di perfetto, non ha proprio nulla.

Ho ritrovato un Brizzi forse cambiato, certo un po’ diverso – sempre il poeta – ma con la capacità intatta di regalarti l’impressione che stia parlando di te e della tua vita. Di mettere in bocca e nella testa dei suoi personaggi confessioni e ammissioni che ben conosci ma non troveresti il coraggio di dire ad alta voce.

Harper Collins

La storia della caduta rovinosa di Luca Fanti – 43 anni, separato, due figli a cavallo dell’adolescenza, giovane imprenditore milionario riciclatosi manager del fratello campione di ciclismo dopo la crisi dei mercati – è un’allegoria della generazione uscita dagli anni 90 con la sensazione di avere il futuro in mano, in un contesto che nascondeva un evidente declino culturale dietro le quinte delle numerose opportunità per “uscire dal gruppo”. E mentre i budget crollavano come grattacieli colpiti da aerei, il rientro in gruppo portava al precariato, all’insicurezza, al futuro nebuloso e al livellamento verso il basso pur di tirare a campare.

Brizzi si infila dentro al suo protagonista con il peso di questo bagaglio ingombrante, smorzandolo attraverso una prima persona ironica, tagliente e infarcita di riferimenti pop che, se da una parte fa riabbracciare lo stile dello scrittore, dall’altra definisce un personaggio irresponsabile e immaturo, un eterno adolescente inadeguato al suo ruolo in società.  Già, perché la sindrome di Peter Pan, insieme a quella dell’impostore, sembra essere un’altra caratteristica fondante della generazione dei precari raccontata nel libro, che si riflette nel loro rapporto con la famiglia. Nessuno si è mai veramente svezzato, tutti sono ancora precari e volubili anche nei sentimenti. Luca Fanti e il fratello Oliver, a cavallo dei quarant’anni, sono gli stessi ragazzini che incontriamo nel prologo del libro. Allo stesso modo Fanti e la ex moglie si sentono ancora troppo figli per essere genitori, con il risultato di mettere al mondo figli maturati così in fretta da far loro da genitori.

Attraverso una progressione inarrestabile di guai, ripicche e gesti inconsulti, Luca Fanti diviene finalmente consapevole della propria vita, costringendosi a maturare mentre tocca il fondo. È un romanzo di formazione tardiva quello di Brizzi, una sorta di campanella di fine ricreazione. È un addio all’adolescenza procrastinata da consumarsi affrontando il proprio egoismo, andando a riallacciare le amicizie perse di vista o date per scontate, fermandosi a parlare veramente con le persone intorno, ad ascoltare quello che troppo spesso si considera rumore.

Sullo sfondo, eppure ben visibile, una Milano da bere che può divorare, indifferente come una balena addormentata rutilante di luci. Creatura spietata che ti accoglie quando scappi dalla provincia, ma che devi saper addomesticare non appena le hai venduto l’anima.

Milano da bere

Perché in fondo la morale della favola, anche facendo i conti con ciò che dentro di noi più si avvicina al concetto di religiosità, è che ognuno ha in mano il proprio destino ed è responsabile delle proprie azioni. L’unica via per allontanare il precariato, in tutte le sue forme, è investire in sforzi e lavoro per vincere la propria gara. Come nel ciclismo – altro pezzo di mondo uscito dagli anni 90 con le ossa rotte da flebo, complotti e campioni sporchi – che Brizzi riporta alla sua dimensione più romantica e genuina, fatta di sudore, lacrime, sacrificio e ossa spezzate.

La primavera perfetta è una fiaba dei nostri tempi, e come tutte le fiabe a volte si dilunga o cede un po’ alla retorica. Ma è un libro sincero, scritto con la voglia di svuotare l’armadio e con un tono scanzonato che sa metterti di fronte alle tue responsabilità.

Sono passati 27 anni da quando il vecchio Alex sfrecciava in lacrime su via Saragozza. È tempo di darlo, quel colpo di reni.

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