E se ti dicessi che non berrai più vino e non mangerai più cioccolata? – Intervista a Fabio Deotto per L’altro mondo. La vita in un pianeta che cambia

L’altro mondo – La vita in un pianeta che cambia è stato pubblicato pochi mesi fa da Bompiani. Il libro di Fabio Deotto – biotecnologo, romanziere, insegnante di scrittura creativa – parla di cambiamento climatico adottando una prospettiva cognitiva: invece di raccontarci semplicemente i luoghi che cambiano a causa del breakdown climatico (c’è anche quello, no worries!) cerca di approfondire perché il clima venga affrontato sì come un problema, ma un problema sempre meno importante degli altri: di fronte al disastro ambientale gli esseri umani diventano improvvisamente fatalisti, perché?
L’altro mondo nasce da un progetto che aveva una faccia diversa, e anche un volume molto diverso. Un reportage in quattro tappe per il magazine Esquire dal titolo Cartoline dell’Antropocene. 
I luoghi su cui porre il fuoco allora erano quattro: Maldive, Lapponia, e le due tappe statunitensi, con la Louisiana e Miami. 

Readers’ Club/Fabio Deotto, scrittore e giornalista, fotografato negli spazi del Broletto sede del Circolo dei lettori di Novara.
Le foto sono di Rino Bianchi.

Da quel momento, era il 2019, il progetto si è ampliato fino a diventare un librone, un tomo di trecentotrentasei pagine, con all’interno molte più storie, luoghi e una nuova consapevolezza. 


Come mai hai sentito l’esigenza di ampliare quell’esperienza?

Mi sono reso conto che non volevo solo raccontare come il mondo fosse già cambiato, ma anche il motivo per cui gli esseri umani fanno così fatica a rendersene conto.
C’era qualcosa che non avevo raccontato nel reportage ed era il cambio di prospettiva. La cosa che mi ha stupito di più è stata rendermi conto che io stesso che avevo studiato queste cose per tantissimo tempo ero spiazzato da quello che avevo visto. Ed è stato lì che ho capito che c’era tutta una questione cognitiva, culturale e di limiti percettivi biologici che valeva la pena indagare. 
Così le tappe geografiche sono diventate tappe tematiche, e ho capito quali nuovi argomenti affrontare e trovare nuove tappe che non avevo fatto per il reportage. Quindi in Pianura padana per l’agricoltura, Venezia per quanto riguarda la questione culturale e la tutela del patrimonio artistico, Trieste per quanto riguarda i migranti climatici.

All’interno del libro hai deciso di inserire il tuo punto di vista, quindi c’è molto di te, del tuo viaggio e delle tue intenzioni – cambi di prospettiva. Come mai hai pensato che fosse importante inserire anche te stesso come personaggio?

Era la prima volta che lavoravo su un progetto così lungo di non-fiction. Io scrivo romanzi, e nella fiction la storia è retta da un arco narrativo, avevo bisogno di una  struttura che tenesse in piedi il libro. Mi è venuto naturale organizzarla così. In un romanzo hai il protagonista che affronta una serie di esperienze e ne esce cambiato, solo che in questo caso il personaggio che aveva faceva il percorso ero io.
Si esce sempre arricchiti da un viaggio e dalla scrittura di un libro. 
O forse sono solo più consapevole del mio impoverimento. Come specie siamo convinti di abbracciare il reale nella sua totalità, no? Dopo un viaggio del genere i limiti diventano davvero chiari. Ora mi è chiaro che quello che il palazzo che crolla a Surfside, a Miami, e l’erosione delle coste in India, o la costruzione del Mose a Venezia per impedire l’innalzamento delle acque sono tasselli dello stesso mosaico, non fenomeni episodici. 

Ne L’altro mondo parli di una contraddizione connaturata all’essere umano, un’incapacità di avere paura di un evento che percepiamo sul lungo periodo. Possiamo esserne preoccupati, certo, anche effettivamente spaventati, ma è come se potessimo relegare il pensiero del cambiamento climatico a un angolino impercettibile del nostro cervello. Come mai?

Decostruire il nostro schema di pensiero passava anche da quello, decostruire il nostro modo di comunicare il cambiamento climatico. Il punto è che non puoi erudire la gente a ceffoni, non funziona. Lo abbiamo visto con il Covid in questo anno e mezzo. 
E non funziona per un problema di comunicazione di base. Gli esseri umani saranno sempre distanti dalla realtà, ce lo insegna Primo Levi in ogni libro che ha scritto. Da scienziato lui si è sempre messo in una posizione di dubbio. Non puoi rovesciare informazioni dentro la testa del lettore, devi dare degli strumenti per costruirsi la sua opinione su qualcosa. Questo gioco non funziona più se non lasci spazio al lettore. 
Io in prima persona non conduco una vita impeccabile, e volevo capire perché proprio io, con tutti gli studi, la sensibilità ecc ecc. non provassi una paura viscerale di questo problema, che invece dovremmo avere.

Qual è il posto che ti ha colpito di più durante questa esperienza?

La Louisiana. Forse è il posto che si è avvicinato di più a farmi davvero spavento. Mi ha creato un disorientamento tale da farmi mettere in dubbio tutto. 
Se devo fare una distinzione, però, la tappa che mi ha davvero emozionato è Venezia. Se porti qualcuno in un posto che conosci bene e dove lui non è mai stato, vedi quel posto attraverso i suoi occhi. Come se lo vedessi per la prima volta. Per me Venezia è stata così. Un posto che avevo visitato molte volte e che ho visto per la prima volta con gli occhi di un professore di architettura che mi raccontava la storia, monumento per monumento. Ha significato mettere in dubbio il mio sguardo. Tantissime cose che non vedevo, tantissime vulnerabilità ovvie di Venezia che io non vedevo perché offuscate dalla patina da cartolina che avevo in testa. 
Mentre, andare in Louisiana, vedere un posto che sta letteralmente sprofondando, seguire il corso del Mississippi in auto e vedere che la strada d’asfalto si tuffa in acqua ma non in un punto in cui c’è un gran cartello che dice LA STRADA QUI È FINITA, un punto in cui la strada continua più avanti, e lo vedi, e se dai un’occhiata vedi anche che ci sono delle case più in là, e ti rendi conto che, in quella giornata lì, non ci si può arrivare a quelle abitazioni e magari dieci giorni prima si poteva, e tra dieci giorni si potrà ancora. 
Però, ecco, sicuramente tra cinque anni non si potrà più. 
Questo è stato come sbattere la faccia contro quanto questa questione sia presente, e vedere la contraddizione culturale del vivere da generazioni in un posto, dove ora non si può più vivere. Sono persone che hanno la possibilità anche di andare a vivere altrove e non lo fanno, ma mica perché sono stupide, o perché sono avide – come succede invece a Miami Beach, dove c’è chi vuole assolutamente vivere a due passi dal mare, a qualunque costo. Non se ne vanno perché tutto quello che hanno è lì: la loro storia, i loro ricordi. Lì ho visto una contraddizione che è difficilmente aggirabile. Sono persone che non hanno altra alternativa che prendere e andare in un posto che non è casa loro.

Il tuo libro si inserisce in una storia di libri che parlano di cambiamento climatico, e in un filone di saggi con una grande componente autobiografica: penso a Jonathan Safran Foer con Se niente importa e Possiamo salvare il mondo prima di cena (entrambi Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccinini), o a Jonathan Franzen con la bellissima raccolta La fine della fine del mondo (Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi) o ancora Il tempo e l’acqua di Andri Snær Magnason (Iperborea, traduzione di Silvia Cosimini). In Italia la recente uscita di Stella Levantesi con il suo I bugiardi del clima (Laterza) che si discosta un po’ dallo stile non-fiction e si rinsalda sul genere saggio. Sai riconoscere dei Maestri a cui hai fatto riferimento in particolare nella stesura del libro?


Sicuramente The next great migration di Sonia Shah di cui parlo tantissimo nel libro, che nel raccontare le migrazioni climatiche in realtà racconta tutto quello che sta intorno,  – ci sono argomenti per cui è necessario, no? –  e sono questi i libri che mi hanno ispirato. 
Shah per raccontare le migrazioni climatiche deve per forza raccontare il nostro rapporto con le migrazioni. E nel raccontare il nostro rapporto con le migrazioni deve per forza raccontare il nostro rapporto con le specie animali e va a indagare le radici del nostro razzismo.  E quando parla di razzismo intende anche quando nasciamo in un posto e poi pensiamo che ci appartenga e che chiunque solchi confini – astratti, che noi umani abbiamo disegnato – sia un invasore. Io da un saggio sulle migrazioni climatiche non mi aspettavo uno sguardo così ampio. Mi aspettavo dei dati, mi aspettavo di imparare qualcosa e basta. Saggi come quello di Shah, o come Sapiens di Yuval Noah Harari (Bompiani, traduzione di Giuseppe Bernardi) o La frontiera di Alessandro Leogrande (Feltrinelli), sono saggi che se dovessimo ridurli a una riga affronterebbero una questione, ma di fatto ne affrontano tantissime. Volevo scrivere un libro che facesse questa cosa. Me ne rendo conto adesso.

Ci sono poi saggi più specifici, però sono quelli che hanno uno sguardo più ampio, e che per forza di cose passavano da un giornalismo tradizionale a questa non-fiction creativa più elastica e libera che consente, con il collante dell’impostazione narrativa, di creare un mondo invece che consegnare informazioni. Noi siamo creature narrative, la nostra visione della realtà è narrativa e quindi noi crediamo di più alle storie che ai dati, raccontare una storia è molto più efficace che consegnare dei dati. 
Se io mi sono potuto permettere di non riempire il mio libro con dei dati, però, è perché ci sono libri che lo hanno fatto. 
Volevo partire da un assunto che vorrei che ormai fosse dato per scontato: il cambiamento climatico è reale ed è causato in grandissima parte dall’essere umano. Il 99%.

Pensi che questo libro parli solo a coloro che già si interessano al cambiamento climatico, ci credono e si voglio informare ulteriormente?

Il mondo è diviso tra chi ci crede, chi non ci crede e poi una grandissima maggioranza che o non si interessa al tema, o non vuole approfondirlo, o che non ha avuto modo di comprendere o interessarsi del fatto che quello che sta avvenendo è già parte della loro vita, e lo sarà sempre di più. Mi volevo rivolgere alle persone che magari non si sono avvicinate all’argomento perché loro hanno sempre sentito raccontare dalla prospettiva di un professore che ti insegna le cose. Sentendosi sempre nella posizione del peccatore, a cui tutti dicono che si sta comportando male. 
Mi sono reso conto che per attrarre l’attenzione su questo argomento bisogna dire: “Ragazzi, vi piace il vino, vi piace il cioccolato? Beh, rischia di diventare un bene di lusso”. Bisogna far emergere tutti quei campi dove non siamo ancora abituati a vedere la questione climatica, come la migrazione, l’agricoltura, la tutela del patrimonio artistico dove invece è determinante rendersi conto dell’impatto.

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