Il nostro sig. Wrenn: una perla ritrovata

L’espressione “fuori catalogo” fa sempre pensare a una sorta di Limbo dantesco. Una gigantesca biblioteca, costruita nei seminterrati di tutte le biblioteche del mondo, dove giacciono libri e autori sospesi tra l’oblio e uno spiraglio di luce che li riporti alla conoscenza del mondo. Sembra vederla in un modo simile anche Antonio Mandese Editore, che dagli scaffali di questa biblioteca sotterranea ha riportato in superficie un vero e proprio tesoro, primo titolo di una nuova collana suggestivamente intitolata “I Salvati”.

mandese.it

Il nostro sig. Wrenn (1914) è l’esordio letterario di Sinclair Lewis, autore spesso dimenticato nonostante si tratti di una delle voci più originali e dissacranti degli Stati Uniti del primo Novecento. Uno, tanto per dire, che nel 1926 si permise il lusso di rispedire al mittente il premio Pulitzer con queste (e altre) parole: “[…] i termini per l’assegnazione del premio sono ‘per il romanzo americano pubblicato nel corso dell’anno che riesce a rappresentare al meglio l’atmosfera della vita americana nel suo più alto livello di educazione e virtù’. Questa frase, se significa qualcosa, vorrebbe indicare che la valutazione dei romanzi deve essere fatta non in base al loro merito letterario, ma in obbedienza a un qualsivoglia codice di buona forma che potrebbe essere popolare in un momento storico”. […] Se oggi il Premio Pulitzer è così importante, non è assurdo pensare che in una futura generazione potrebbe diventare l’unico obiettivo per il quale ogni romanziere ambizioso s’impegnerà; e gli amministratori del premio potrebbero diventare un organo giurisdizionale supremo, un collegio di cardinali, così radicati e così sacri che a sfidarli si rischierebbe di diventare blasfemi”.

Sinclair Lewis

Rincarò la dose quattro anni dopo nel discorso di accettazione del premio Nobel per la letteratura – Per essere non solo un best seller, ma per essere davvero amato, in America, uno scrittore deve dichiarare che tutti gli uomini americani sono alti, di bell’aspetto, ricchi, onesti e potenti a golf” – e, se da questi interventi emerge in modo chiaro e indiscutibile il punto di vista coerentemente anarchico di un autore all’apice della carriera, è altrettanto interessante constatare come alcune idiosincrasie – l’insofferenza verso una certa intellighenzia altezzosa e giudicante che tende a parlare tanto senza dire niente, l’ironia nei confronti dell’incapacità dell’americano medio di vedere oltre il proprio naso – siano già individuabili nel suo primo romanzo.

Premio Nobel 1930

Il nostro sig. Wrenn racconta “le avventure romantiche di un gentiluomo americano” di nome William Wrenn, scialbo provinciale trentaquattrenne, trapiantato a New York, che vive in totale solitudine tra una stanza in affitto e un lavoro monotono e frustrante. Le sue uniche valvole di sfogo sono le serate al cinema – che frequenta più che altro per il surrogato di socialità che gli dà il cenno cordiale dell’uomo che stacca i biglietti all’ingresso – e le lunghe passeggiate domenicali, attività durante le quali può scatenare la sua fervida immaginazione e fantasticare di essere altrove, in posti paradisiaci di cui ha letto nei libri di viaggio o nei racconti di Kipling o London. Spende il minimo indispensabile e risparmia per finanziare un’avventura all’estero che non farà mai, almeno finché un’eredità inaspettata non gli dà il coraggio di lasciare tutto e partire per la tanto sognata Europa. Scoprirà, in questo suo personale “viaggio dell’eroe”, che la realtà è molto diversa dalle sue aspettative, ma tornerà più consapevole di sé stesso e dei suoi limiti umani e culturali, riconducibili ai confini nazionali.

New York, 1910

Lewis definisce Wrenn “nostro” non solo perché così lo chiama il suo direttore in una forma di maldestro proto team building, ma soprattutto nel senso di “appartenente al nostro sistema di valori”, poiché il suo punto di vista è in generale quello dell’americano medio sul mondo: Wrenn misura ogni aspetto della sua vita in termini di valore monetario, a teatro e letteratura preferisce il cinema – arte meccanica, popolare e antitradizionale che, come il paese stesso, è giovane e in via di sviluppo industriale; ha una visione esotica e stereotipata del resto del mondo, e non può fare a meno di comparare ciò che c’è oltre confine con quello che gli Stati Uniti possono offrire. È in sostanza un sognatore pragmatico, ossimoro che Lewis restituisce alla perfezione sia con una schizofrenia di nomignoli ancora tipicamente americana – Bill Wrenn, viaggiatore indomito e istintivo, che è alter ego del Wrennie timido e cervellotico analizzatore di pro e contro –,  sia con i due personaggi femminili (altrettanto americani) che faranno battere il cuore del protagonista: Istra, volubile e insoddisfatta pittrice bohémien che anima i salotti inglesi e parigini ma viene dalla California; e Nelly, solida commessa newyorchese che è un signor Wrenn al femminile con un maggior grado di socialità.

Our Mr. Wrenn

Stupisce che quella che nasceva come necessità di Lewis di proporre una nuova letteratura americana, raccontando un personaggio diverso da ciò che il sistema culturale e commerciale dell’epoca imponeva, e utilizzandolo per farne satira, restituisca il panorama di un paese che, guardandolo dalla prospettiva odierna, sembra non essere cambiato molto negli ultimi 108 anni. Questo fa de Il nostro sig. Wrenn un libro inaspettatamente contemporaneo, così come la scrittura di Sinclair Lewis qui apprezzabile in una nuova traduzione di Guido Lagomarsino.

Cesare Pavese

Cesare Pavese, che per primo in Italia lo tradusse e apprezzò, sosteneva che l’esordio a quasi 30 anni facesse di Lewis uno scrittore già maturo e dalla penna sicura. Di sicuro in questo romanzo c’è già molta di quell’“arte descrittiva vigorosa e grafica” con cui l’Accademia svedese motivò il Nobel: bastano poche righe, dei baffetti malriusciti, un vestito portato senza corsetto o un colletto sporco come l’anima di chi lo porta, ed ecco il ritratto fisico e psicologico dei personaggi saltar fuori dalla pagina. E non importa che siano protagonisti o comparse, come l’inarrivabile “campagnola del Nord, alta, magra, con il viso di pergamena, dall’aria ammuffita, come se fosse stata vestita con abiti vittoriani nel 1880 e lasciata lì in un angolo fin da allora”. Non ci sono critica o denuncia nella scrittura di Sinclair Lewis, né la volontà di fare un’esplicita morale al proprio paese; solo un’invidiabile facilità di racconto, e un’ironia costante che sa farsi tanto tagliente nel ritratto dei salotti buoni e supponenti di letterati pseudo socialisti (l’intellighenzia di cui sopra), quanto bonaria nella descrizione degli spazi comuni di una pensione dove anime solitarie formano una gioviale famiglia alternativa. Oltre a una certa tenerezza di fondo nell’accompagnare il suo protagonista attraverso un ottovolante di ascese e cadute che lo porteranno a scoprire il suo posto nel mondo.

Recuperare Il nostro sig. Wrenn significa salvare la grazia e la leggerezza di un prodromo – diceva ancora Pavese – dei personaggi di Charlie Chaplin e Buster Keaton. Chissà come ci stava male, rinchiuso e sepolto in quella biblioteca sotterranea.

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