La vita paga il sabato: un gradito ritorno

Qual è il contrappasso per un giallista di successo? No, non è una freddura da Settimana Enigmistica, ma la dura realtà che costringe chi ha creato un memorabile risolutore di enigmi a farlo tornare in fretta, perché il pubblico non rimanga orfano troppo a lungo di un personaggio a cui si è affezionato. Lo sapeva bene Andrea Camilleri, che negli ultimi 25 anni della sua vita ha sfornato romanzi e racconti di Montalbano più velocemente di un pizzaiolo all’ora di punta del sabato sera; lo sa benissimo Carlo Lucarelli, che di investigatori più o meno abili ne ha creati talmente tanti da dover spesso riallacciare il filo di un discorso lasciato in sospeso. Lo sapeva forse meno bene Davide Longo, che, dopo aver diluito in sette anni e due editori diversi i primi tre volumi della saga di Corso Bramard e del commissario Arcadipane (ne abbiamo parlato qui), ha dovuto fare gli straordinari per pubblicare la nuova indagine dei suoi due malinconici e antitetici eroi a poco più di un anno dal meritato riscontro di pubblico registrato con il passaggio a Einaudi. Ma se sei un piemontesissimo artigiano delle storie sgobbare non è certo un problema, e infatti Longo scende dalla sua baita in montagna con il romanzo più lungo della serie.

La vita paga il sabato – che ruota intorno alle indagini sulla morte del produttore cinematografico Terenzio Fuci e la conseguente scomparsa della moglie, la misteriosa attrice Vera Ladich – si presenta fin dalla citazione incrociata del titolo per quello che è: una storia nera che miscela la montagna aspra e all’apparenza immobile di Fenoglio, dichiarato nume tutelare dell’autore, con l’amarezza e il disincanto dei sottoboschi metropolitani di Scerbanenco. Certo sono ingredienti di cui si poteva intuire il profumo anche negli episodi precedenti, ma questa volta Longo vuole calcare la mano; e lo fa rompendo in maniera netta ed evidente con le consuetudini del passato.

Beppe Fenoglio
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Innanzitutto – e coerentemente con il poco tempo trascorso dall’ultimo libro – ci riconsegna i suoi protagonisti quasi al punto in cui li abbiamo lasciati; dopodiché li sradica dalla sabauda e riconoscibile comfort zone di Torino e dintorni e li sbatte, al solito devastati nel corpo e nell’anima come una vecchia scarpa rotta tenuta insieme da un nastro isolante, a indagare tra la fantomatica Clot, nonluogo di 37 anime schiacciato tra una diga e il nulla, e una Roma così deformata dalla prospettiva del piemontese in trasferta da ricordare quella littoria e straniante de Il conformista di Bertolucci. Infine, per amplificare ancora di più questo senso di disorientamento, sacrifica l’introspezione dei romanzi precedenti, per dare più spazio a un plot che porta a così tanti vicoli ciechi da lasciare i personaggi imbambolati, con i pensieri a metà, le vite in stand by e l’ingegno spuntato di un Arcadipane sempre più lento e ottuso e di un Bramard che sembra aver perso la sua connessione con il sottotesto delle cose. È un noir onirico, quello imbastito da Longo, che porta alla memoria altri esempi cinematografici come Le catene della colpa di Jacques Tourneur, o Il lungo addio di Robert Altman, o Chinatown di Roman Polanski: sogni lucidi in cui si respira forte un senso di inevitabile predestinazione, che porta l’investigatore a rincorrere una verità che è sempre un passo oltre a lui.

La vita paga il sabato è un libro che parla di decadenza fisica e morale, di rimpianti irrecuperabili, di radici spezzate e del bisogno che abbiamo di provare a ricostruirle. È, ancora una volta e sempre di più, una danza in bilico tra la vita e la morte, tra la speranza dei buoni propositi e la testardaggine dei silenzi consapevoli, tra la bellezza delle piccole cose e la ferocia dell’umanità. Ma è soprattutto un giallo che va oltre il genere, scritto da un autore che, oltre alla consueta abilità artigianale e a un uso della lingua che non scopriamo certo oggi, mette in piedi un gioco raffinato che si muove nei linguaggi specifici di altre forme d’arte, per poi riunirli in letteratura. Perché Longo ammicca al cinema anarchico che infrange la quarta parete, inventa gli affreschi misteriosi di un ambiguo artista medievale, si apre a inaspettati riferimenti alla musica pop in un continuo scambio tra sacro e profano; per spiegarci, in definitiva, che dentro all’arte – a tutte le arti – ci sono le storie, ed è dentro alle storie che si trova la verità.

Giorgio Scerbanenco
Gloriettina, CC BY-SA 4.0
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Arcadipane e Bramard meritano ormai il loro posto tra i grandi investigatori della letteratura italiana, perché la tristezza che ti investe ogni volta che finisce una loro storia è legata tanto alle loro malinconie, quanto al desiderio di accompagnarli una volta in più lungo un altro pezzo delle loro vite. Sicuramente torneranno, chissà per quante volte ancora. Perché se il contrappasso del giallista di successo è scrivere in fretta per non lasciare il lettore orfano troppo a lungo, il contrappasso del lettore del giallista di successo è vivere nella speranza che il giallista di successo non si rompa le scatole.

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