Giallo e nero nel Piemonte grigio di Davide Longo.

Una rabbia semplice di Davide Longo è l’ultimo capitolo della “trilogia piemontese” dedicata al commissario Vincenzo Arcadipane e al suo mentore Corso Bramard. Il primo edito da Einaudi, che ha colto l’occasione per ripubblicare i primi due romanzi precedentemente usciti per Feltrinelli: Il caso Bramard (2014) e Le bestie giovani (2018). Tre storie perfettamente godibili anche lette in maniera indipendente, ma vi fareste un grande torto se rinunciaste ad immergervi del tutto nell’universo narrativo creato da Longo.

Innanzitutto perché, se amate il genere giallo – quello classico, per intenderci, con l’assassino e il poliziotto che indaga – sono tre libri appassionanti e ben costruiti. Ma poi perché vi accorgerete che, a un certo punto, non ve ne fregherà più niente di scoprire chi è l’assassino; vorrete solo continuare a vivere con quei personaggi, fare un pezzo di strada insieme a loro, seguirli a debita distanza con discrezione sabauda e affettuosa tenerezza. Bramard e Arcadipane hanno la caratteristica, propria dei migliori personaggi letterari, di mancarti appena chiudi il libro.

Longo ha più volte dichiarato di non aver pensato subito ad una serie, e di aver scritto i libri successivi solo quando ha sentito il bisogno di tornare a visitare i suoi protagonisti. Per vedere come stavano, come procedevano le loro esistenze, come si fa con quei vecchi amici che perdi di vista per un po’, finché non ti torna tra le dita il loro numero di telefono e fai partire una chiamata. Un’idea romantica, preferibile e sovrapponibile alle inevitabili strategie editoriali, messa in pratica attraverso una certa distanza temporale tra una storia e l’altra che ci restituisce personaggi invecchiati, consapevoli, rassegnati. E veri.

Perché Arcadipane e Bramard non assomigliano a nessun altro detective di carta: il primo è tutt’altro che geniale, ha un’intelligenza media e un’istruzione limitata, se la cava grazie alla sua ostinazione tutta meridionale e alla profonda umanità che ha dentro agli occhi; il secondo è un filosofo prestato alle forze dell’ordine, un uomo di cultura raffinata ma con una concretezza solida propria delle montagne da cui proviene. Uomini d’aria e di terra, di testa e di mano, personaggi complessi e contraddittori con un vuoto dentro impossibile da colmare. Investigatori per i quali la ricerca della verità passa attraverso la ricerca della loro stessa identità, in una struttura narrativa propria del noir classico dove – per citare la geniale intuizione del critico cinematografico Bruno Fornara – il private eye, l’occhio privato del detective, deve prima di tutto indagare sul suo private I, l’io privato che definisce la sua anima.

C’è tanto noir nel giallo di Longo, nelle atmosfere disilluse e crepuscolari come nei temi ricorrenti dell’incombenza della morte, del passato che ritorna e del destino inevitabile. Nei personaggi secondari, tutti con la loro giusta quota di disperazione, ai quali volere altrettanto bene. Nella tenue fiammella di speranza, che fa tirare avanti procedendo per sconfitte formative e traguardi impercettibili. Nell’ambientazione piemontese che non è solo una Torino periferica e residenziale, sfumata e indifferente, ma anche le valli alpine silenziose e inesorabili, che sono luoghi della mente; la pianura brulla e immobile, che fiancheggia la Torino-Milano come in certi film dei fratelli Coen; le risaie vercellesi, sconfinate quanto il Texas di Cormac McCarthy.

C’è il nord con tutte le sue contraddizioni, la sua umanità discreta vestita di freddezza, l’inquinamento che soffoca un’aria che diventa pura poco più in là. C’è una caramella grigia – il sucai – che è tanto dolce quanto amara, un senso di colpa alimentare a portata di tasca, che solo dopo averlo mangiato puoi capire sul serio.

Davide Longo è un personaggio particolare. Uno che in inverno si presenta in giacca a vento e scarpe da montagna, in estate in maglietta e sandali e ogni volta tiene lezioni straordinarie, che ti portano in giro attraverso l’arte, la musica, il cinema, la letteratura. Uno che si professa tecnologicamente ignorante, ma poi ti chiede un computer con Prezi perché la presentazione l’ha preparata lì. Le sue storie e i suoi personaggi sono come lui: genuini, spigolosi, ironici, raffinati, rifiniti con la cura artigianale di far girare ogni pagina con il gusto per il dettaglio, il micro episodio, la frase lunga e tortuosa alternata a quella corta e laconica. Scritti con la fatica di nascondere al lettore quella stessa fatica, che diventa godimento. Arcadipane e Bramard torneranno? Non resta che confidare nella nostalgia di Longo. Senza disturbare, per carità.

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